“NOI ABBIAMO UNA MALATTIA, NON SIAMO LA MALATTIA”

In "Bianco è il colore del danno" Francesca Mannocchi racconta la sua “migliore nemica”, la sclerosi multipla, che le ha fatto ripensare tutta la sua vita

«Le mie lesioni sono bianche e la mappa in scala di grigi è la vita della malattia, il suo stare, il suo evolversi, dentro di me, potenzialmente degenerativo”, si legge in una delle pagine di “Bianco è il colore del danno» (Einaudi Stile libero big). A Francesca Mannocchi, giornalista e scrittrice, quattro anni fa viene diagnosticata la sclerosi multipla, poco dopo la nascita di Pietro. La malattia e suo figlio sono “i miei due unici persempre”, spiega l’autrice. Nel libro, passato, presente e futuro si intrecciano continuamente tra i ricordi, di infanzia e non solo, legati soprattutto a nonna Rita, un presente che chiede di «configurarmi in uno spazio nuovo» e «qualcosa che si è disperso: il mio futuro per come l’avevo pensato».

Com’è nata l’idea di scrivere questo libro?
«Due anni e mezzo fa ho scritto un articolo per il settimanale “L’Espresso”, in cui cercavo di raccontare con coscienza politica cosa significa Sistema Sanitario Nazionale, per una persona che si trova improvvisamente a fare i conti con una malattia cronica. L’ho scritto perché speravo che potesse essere utile a tanti, come me, che improvvisamente si trovano ad avere a che fare con tutte le cose faticose, elefantiache, kafkiane degli spazi ospedalieri, dell’attesa. Dopo aver scritto quel pezzo, ho cominciato a ricevere molte lettere di persone che, con diverse malattie e varie questioni, si erano trovate a contatto con gli ospedali e con il senso di minorità che a volte la sanità pubblica ti dà. È vero che siamo fortunati ad avere un Sistema Sanitario come il nostro, ma è anche vero che dobbiamo tutti i giorni fare i conti con le grandi o gigantesche ingiustizie che la sanità pubblica ci pone davanti. Quando questo lo devi affrontare in un tempo che va da zero a per sempre, devi ricominciare a pensare tutta la tua vita. Ma non solo nell’aspetto pratico, anche in quello emotivo, che significa quanto questa malattia sta cambiando me e tutte le persone che ho intorno. Allora ho cominciato a leggere degli scritti di filosofi, studiosi, scienziati su quest’argomento e mi sono resa conto di quanto, leggendo e indagandomi, la lingua che mi proponeva la medicina e la lingua che parlava il mio corpo fossero due lingue diverse. Mi sono detta: forse se ne scrivo, questa storia smette di essere la storia di Francesca e diventa la storia di centinaia di migliaia di Francesca che ci sono in questo paese. Nel libro ho scritto di getto quello che pensavo, esattamente come lo vivevo».

bianco è il colore
Francesca Mannocchi (©Daniela Zedda)

“Non dirò mai che è un’opportunità, non dirò mai che è un dono”. Che nome hai imparato a dare alla sclerosi multipla?
«A un certo punto mi sono detta: se la lascio entrare vince lei. Vince lei perché è un danno che ha prodotto il mio corpo, quindi che avrà anche lei tutte le caratteristiche della mia personalità, quindi se entra non lo fa in punta di piedi, ma entra per spazzare tutto. In quel momento ho deciso che dovevo fare il tentativo non di vincerla (non si può fare), ma di impedire con tutte le mie forze che lei diventasse dominante nella mia vita. Le forze che ho io sono quelle della parola. Ognuno di noi dà un nomignolo, io la chiamo “la mia migliore nemica”: non dirò mai che è un dono o un’opportunità, ma è uno strumento. È l’occasione di ripensare la vita da sola, per quello che riguarda Francesca, e di cercare di ripensarla insieme agli altri, che è quello che secondo me ci manca nella gestione delle malattie».

“Perché proprio a me?”. Quante volte te lo sei chiesto? Te lo chiedi ancora?
«Me lo sono chiesto, me lo chiedo meno, perché la gestione della vita insieme alla mia “migliore nemica” è una gestione a singhiozzo. Ci sono delle fasi lunghe, in cui vivo la presenza della malattia come uno dei tanti elementi della mia vita, difficile, faticosa, ingiusta, però è lì, quindi è inutile che mi arrabbi perché non se ne va. E ci sono delle fasi più brevi, ma faticosissime, di rifiuto, e questo credo che capiti a tutti. A me negli ultimi mesi capita quando tiro fuori la puntura dal frigorifero: mi sale un moto di frustrazione e parlarne, dando un nome a questa frustrazione mi aiuta, prende un pezzettino di questa rabbia e la rende non più mia, la porta fuori».

“Io sono diventata un passivo mucchio d’ossa e carne che, per proteggersi dall’incapacità di comprendere, si impone di non provare né pena, né preoccupazione, né paura”. Quest’imposizione ogni tanto cede?
«Quando sento che cede, raccolgo le forze. La mia è una condizione di relativa fortuna, non ho avuto una ricaduta invalidante in questi anni, per ora. Questo è anche il brutto di questa malattia: ognuno di noi ha una sclerosi multipla diversa, perché noi siamo tutti essere umani diversi. Questo ci fa impazzire di questa malattia, che siccome è stata creata dal nostro corpo, ogni singola malattia è una malattia a sé. Questa consapevolezza cerco di renderla una sorta di simbolo di qualcos’altro. In quest’anno di pandemia, mi sono detta: forse tutta la società oggi vive quello che noi, più di 120mila persone in Italia, viviamo da anni? Ovvero, l’idea che siamo funamboli, camminiamo su un filo e sotto la rete non sai cosa succede domani. Magari stai bene tutta la vita, magari non hai episodi di ricadute, contemporaneamente ti svegli tutti i giorni con una domanda, che a volte ha un volume alto e a volte basso, che è sempre la stessa: chissà domani?»

Quest’anno di pandemia ti ha permesso di riflettere di più?
«Come capita spesso ai malati, che hanno usato la malattia come strumento e hanno trovato un baricentro, un equilibrio, mi sono resa conto di quanto io fossi meno vulnerabile delle persone intorno a me. Ho pensato che forse tutto  il percorso nell’incertezza, che avevo fatto già negli anni precedenti, poteva essere d’aiuto a chi mi stava intorno, per dirci che il nostro corpo è un corpo che può danneggiarsi, che non è perfetto, dobbiamo aspettarci l’imprevedibilità delle cose che ci circondano».

“Cosa ti hanno fatto, cosa non riesci a perdonare?”, “Non mi hanno vista”. Cosa vuol dire questa tua risposta al Dottore?
«Talvolta le definizioni tendono ad inglobarci. Stamattina risentivo delle composizioni di piano di Martha Argerich e delle sue interviste, in cui afferma che ama il pianoforte, ma non vuole essere una pianista. Sembra una sciocchezza, ma con quella frase lei spiega che quella è la sua passione, ma non vuole essere identificata solo con essa. Questo mi ha fatto riflettere sul tema dell’identità: quando diciamo che ci hanno diagnosticato una malattia, le persone intorno ci dicono “siete malati”. Noi non siamo malati, abbiamo una malattia, viviamo con la malattia, non diventiamo quella malattia. “Non mi hanno vista” è un modo per stimolare una riflessione su come noi guardiamo gli altri e su come dagli altri siamo guardati. C’è l’esigenza di incatenare le persone e le cose alle definizioni».

L’altro tuo “unico per sempre”, Pietro, è arrivato pochi mesi prima del manifestarsi della sclerosi multipla. Si può ipotizzare che la gravidanza sia stata l’evento scatenante, capita che, in situazioni di grande cambiamento, le malattie autoimmuni si scatenino…
«Non c’è nessuna risultanza scientifica che la gravidanza e la malattia siano correlate, ma tra le tante domande che ti fai c’è anche: cosa ne sarebbe stato del mio corpo se non avessi partorito? È una domanda che capita di farsi. Questa malattia non è del singolo, ma di tutta la famiglia, il vero tema è: come sarebbe la vita per mio figlio se non fossi in grado di accudirlo?»

“Non ce la puoi fare da sola, Francesca”, dice il Dottore in “Bianco è il colore del danno”. Da chi o da cosa poi ti sei fatta aiutare?
«Credo che la malattia, alle persone come me, dia la presunzione di essere invincibile, di potercela fare da solo. Questo è un inganno, naturalmente. So che la prova che devo affrontare è saper dire “non ce la faccio da sola”. Questo è un insegnamento che mi sarei dovuta dare anche prima della malattia, che è stata ed è una continua fonte di riflessioni, mi ha aiutato a capire su quante cose prima non avevo abbastanza riflettuto. La malattia ti inserisce in uno stato di minorità, che non è naturale, ma viene determinato dalle griglie identitarie. Il rapporto con la Sanità pubblica e privata ti fa soffrire, il contatto consuetudinario con le disuguaglianze fa emergere il tema forte della vergogna. Credo che ci siano tante persone che con difficoltà nominano la vergogna per quella che è, penso che dobbiamo aiutarci per dare una lingua il più comune possibile».

Il corpo ti ha “teso un tranello e senti che di lui non ti fidi più”. Hai ricostruito il rapporto con il tuo corpo?
«Dopo la diagnosi mi sono messa in ascolto, non faccio più finta di non sentire rispetto a prima».

__________________________________________________

bianco è il coloreFrancesca Mannocchi
“Bianco è il colore del danno”
Einaudi 2021
pp. 216, € 17,00

 

 

 

 

Sulla sclerosi multipla leggi anche ANDREA, LO SPORT, IL VOLONTARIATO. PERCHÈ LA SCLEROSI MULTIPLA NON VINCA (retisolidali.it)

Se avete correzioni o suggerimenti da proporci, scrivete a comunicazionecsv@csvlazio.org

“NOI ABBIAMO UNA MALATTIA, NON SIAMO LA MALATTIA”

“NOI ABBIAMO UNA MALATTIA, NON SIAMO LA MALATTIA”