NON FAREMO MAI LA PACE, SE NON IMPARIAMO A RACCONTARE LE GUERRE

Conflitti dimenticati, guerre mal raccontate: l'informazione purtroppo non spiega cause e contesti e ci lascia un'idea semplicista dei conflitti

Quando si fa giornalismo in zone di guerra l’errore più grande che un cronista può fare è quello di raccontare la battaglia come se fosse una partita di calcio. Qualcuno vince e qualcun altro perde, poi c’è chi avanza, chi indietreggia, chi conta i danni materiali e chi i morti. Come un vero e proprio bollettino dal fronte, che parla di chilometri guadagnati e città conquistate, ma che si dimentica delle persone e delle loro sofferenze.

È stato questo uno dei punti toccati da Cecilia Dalla Negra, giornalista di QCode Magazine e vice direttrice di Osservatorio Iraq – Medio Oriente e Nord Africa, durante il corso di formazione per giornalisti “L’informazione: da fabbrica della paura a strumento di pace”, organizzato dal Cesv e da Caritas Italiana giovedì 8 settembre a Roma.

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L’intervento di Cecilia Dalla Negra sul giornalismo di guerra

GIORNALISMO E CONFLITTI. Dalla Negra ha ricordato gli insegnamenti dello studioso norvegese Johan Galtung sul giornalismo di pace, sulla “via superiore” da percorrere: raccontare le cause del conflitto, dare voce alla società civile, fornire ai cittadini e a chi li governa strumenti su cui fondare mediazioni e dialogo.

Nell’intervento è stato però sottolineato come il termine “conflitto” non sia solo un sinonimo di “guerra”. Ci sono tanti conflitti anche nella nostra società, apparentemente pacifica, e riguardano tutte quelle problematiche di integrazione e convivenza che quotidianamente vengono affrontate dai media. Creare il conflitto è, quindi, anche e soprattutto inneggiare alla violenza, parlare alla pancia anziché al cervello, suscitando nel pubblico gli istinti più irrazionali, alimentare luoghi comuni e pregiudizi sugli stranieri, fuorviare i lettori con titoli sensazionalistici che hanno più a che fare con l’hate speach, i discorsi d’odio, che con il fare informazione.

SPIEGARE I CONTESTI. I giornalisti, attraverso le loro parole e il loro linguaggio, possono alimentare le divergenze che già esistono tra le persone; possono raccontarci – senza prove, contro la scienza o modificando a proprio piacimento le fonti – che il ritorno della malaria in Italia è imputabile agli immigrati. Oppure possono realizzare quella “missione” giornalistica del rispetto della verità sostanziale dei fatti, aiutando le persone a comprendere il mondo che hanno intorno.

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Il sito dell’Osservatorio Iraq – Medio Oriente e Nord Africa

«Negli anni ho addirittura sentito parlare di “effetti collaterali” quando durante un attacco viene bombardata una scuola e muoiono dei bambini», ha dichiarato Dalla Negra, specializzata nella questione israelo-palestinese. «C’è un problema di linguaggio, ma se non si conoscono i contesti, se non si spiega alla gente per quale motivo delle persone si fanno la guerra da decenni e si odiano, allora facciamo solo propaganda, riportiamo le fonti ufficiali e ci autocensuriamo. Non facciamo giornalismo».

IL CASO SIRIA. Un altro argomento molto controverso è la situazione in Siria. La giornalista ha raccontato un caso emblematico di come nel giornalismo di oggi esista una narrazione spostata più sul conflitto che sulla pace: «La battaglia per la riconquista di Aleppo da parte delle truppe di Assad è stata descritta da quasi la totalità dell’informazione italiana come la “liberazione di Aleppo”. Il regime ha conquistato la parte est della città dove c’erano i ribelli, ma le truppe del presidente hanno ucciso anche i civili compiendo dei veri e propri orrori. Questa sarebbe una liberazione? Perché se ne è parlato così poco e soprattutto perché se ne è parlato solo in questi termini? C’erano video, foto e tantissime altre prove, ma noi abbiamo metabolizzato la narrazione di un cattivo da combattere e di un male minore, che dopotutto ci conviene sostenere, anche se crediamo comunemente che Assad sia un dittatore. Il giornalismo che crea la guerra alimenta tutto questo, il giornalismo che crea la pace va alle cause, dà voce agli ultimi e parla di umanità».

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Paolo Beccegato è intervenuto sul tema dei conflitti dimenticati

I CONFLITTI DIMENTICATI. Ma ci sono anche i conflitti dimenticati: guerre che l’informazione mainstream trascura e che noi, con il passare del tempo, dimentichiamo. Su questa linea si è espresso Paolo Beccegato, vicedirettore di Caritas Italiana e Capo Area internazionale: «Nella maggior parte dei casi i conflitti nascono dove c’è povertà. Il 90% di quelli armati a partire dalla fine della seconda guerra mondiale si sono diffusi in quelli che vengono chiamati Paesi in via di sviluppo, anche se non li conosciamo tutti». Perché? «Fanno notizia quei Paesi che hanno il PIL maggiore, quelli più ricchi. Più una nazione è rilevante nello scacchiere geopolitico, più conquista spazio nell’agenda dei media», ha spiegato Beccegato, con riferimento ai dati raccolti dalla Caritas nel 5° Rapporto sui conflitti dimenticati, pubblicato (insieme a Famiglia Cristiana e Il Regno – edizioni Mulino) e presentato nel 2015 in occasione dell’Expo di Milano.

La povertà, ironia della sorte, fa un doppio danno: crea il conflitto e poi lo sotterra, rendendolo “non notiziabile”. Ma non c’è solo la povertà assoluta, a pesare sono soprattutto le diseguaglianze e il fatto che molto spesso benessere e malessere sono divisi dai confini di un quartiere, di una favelas o da un muro.

LE CAUSE DELLE GUERRE. Beccegato, tra i curatori del rapporto, ha sottolineato altre cause che portano al conflitto: «La dipendenza da poche materie prime, la scarsità di cibo e acqua, i crescenti cambiamenti ambientali come il surriscaldamento globale e la desertificazione, le speculazioni finanziarie e la recessione economica».

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Il sito confliittidimenticati.it

Non c’entrano, invece, etnie e religioni, perché la violenza non è genetica e neanche culturale. Ecco un esempio: «Si parla tanto di Isis ma in certe città filippine, dove ci sono soprattutto cristiani (l’80% della popolazione totale è cattolica ndr), si muore nel 50% dei casi perché ammazzati».

Alcune guerre si combattono a nostra insaputa (Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sud Sudan, Uganda, Myanmar solo per citarne alcuni) mentre quelle che conosciamo, nella quasi totalità dei grandi media, vengono raccontate parzialmente. Non si parla di cause e di conseguenze dei conflitti, non vengono contestualizzati, non vengono menzionate le responsabilità dell’Occidente, gli sfruttamenti, la questione della vendita di armi. «Il minutaggio bassissimo nei media audiovisivi e le poche righe sui giornali dedicate all’approfondimento di questi argomenti sono il problema maggiore» ha concluso Beccegato.

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