DIVERSITÀ: I BRAND CHE INCLUDONO PIACCIONO DI PIÙ

Lo dimostra la ricerca presentata al Diversity Brand Summit: la diversità aumenta creatività e produttività e genera profitto per le aziende

L’80% della popolazione italiana preferisce brand inclusivi, attenti alla diversità in senso ampio, in termini di orientamento sessuale, religione, etnia, età, genere, disabilità e status socio-economico. La Diversity & Inclusion (D&I) è diventata decisiva per il successo delle aziende: la propensione a consigliare un brand aumenta quando le aziende sono inclusive e arriva fino a valori del 70,8%. Le aziende attente al sociale, insomma, sono quelle che ci piacciono di più. Ma essere inclusive è qualcosa che conviene: genera valore a livello sociale e aziendale con un aumento dei ricavi fino al +16,7%.

Il dato è stato comunicato a Milano l’8 febbraio 2018, durante il Diversity Brand Summit, il primo evento europeo che mette in relazione diversity e business, ideato da Diversity, associazione no profit impegnata nella promozione di politiche di diversity, e Focus Management, società di consulenza strategica esperta sui temi del trust e del brand.

Sono stati presentati i dati della ricerca “Diversity Brand Index”, realizzata da un team di ricerca eterogeneo in termini di competenze e supervisionata da un Comitato Scientifico, presieduto da Sandro Castaldo, professore di marketing presso l’Università Bocconi di Milano. Coca-Cola si è aggiudicata il Diversity Brand Award 2018, e American Express, Google, TIM e Vodafone completano la top five dei brand concretamente impegnati sulla diversità e l’inclusione ed efficaci nel parlarne a consumatrici e consumatori.

 

Diversity brand summit
Sandro Castaldo, Professore di Marketing presso l’Università Bocconi di Milano

ESSERE COINVOLTI NON BASTA. In giornate dove i fatti di cronaca, e chi li strumentalizza, sembrano raccontarci il contrario, la ricerca offre un dato confortante. Solo un italiano su cinque sembra essere insensibile ai messaggi di inclusione. L’altro lato della medaglia è il fatto che questo interesse raramente sfocia in un comportamento proattivo. «Si fa più teoria che pratica» ci spiega Sandro Castaldo nel corso del Diversity Brand Summit. «C’è un pezzettino piccolo della popolazione che è arrabbiata, negativa nei confronti dell’inclusione. Dall’altra, un 20% della popolazione che è proattivo, attento non solo dal punto di vista teorico ma anche a livello pratico. La parte centrale della popolazione afferma di essere aperta all’inclusione, ma non mette in atto dei comportamenti effettivi. Essenzialmente per pigrizia: aderisce a certe linee in termini di principio, ma ha difficoltà di tradurli in azione. Molti consumatori hanno dichiarato che loro, pur essendo vicini a certe questioni, non hanno occasione di confrontarsi con esse».

 

RESPONSABILITÀ SOCIALE D’IMPRESA. Durante il Diversity Brand Summit è stato chiesto agli intervistati di identificare quali fossero le aree della diversity a loro più familiari. E, riguardo a ciascuna forma, di indicare i marchi che considerassero più inclusivi. Per ogni forma di diversità sono stati individuati alcuni marchi che si erano distinti per campagne pubblicitarie, per iniziative, attività sui social, risorse umane. «Queste qualità differenziano in modo significativo il brand, rendendolo molto orientato verso la CSR, la responsabilità sociale d’impresa» ci illustra Castaldo.

«Il brand inclusivo è visto come attento alla propria responsabilità sociale e non solo a un mero profitto. Anche se abbiamo visto che, paradossalmente, proprio perché viene premiato dal consumatore, è quello che ha le maggiori possibilità di business. Essere inclusivi conviene anche. Se riusciamo a dimostrarlo, portiamo le aziende ad essere inclusive, e creiamo un circolo virtuoso, fatto di comportamenti virtuosi. E questo può diventare la normalità».Il dato dell’aumento di ricavi del 16,7% per queste aziende, presentato durante il Diversity Brand Summit,  è proprio qui per questo.

 

COMUNICARE L’INCLUSIONE. Resta però un ulteriore passo da fare: comunicare la propria attenzione alla diversità. «Se dalla parte del cliente c’è una grande disponibilità, paradossalmente l’azienda è meno incline, meno pronta a comunicare e sviluppare iniziative volte ad includere» ci rivela Castaldo. «Se anche hanno dei comportamenti inclusivi all’interno, le aziende non comunicano ancora in modo forte e deciso queste iniziative. Perché si sentono poco pronte per essere percepite come attente alla diversity, ed è giusto che prima si rinforzino e poi facciano il salto. E probabilmente per il timore di non essere interpretati positivamente dal mercato. Questa ricerca spazza via quest’ultimo dubbio. Ci vorrebbe più coraggio e bisognerebbe farlo con più determinazione, visto che alla fine paga anche». Un ulteriore salto in avanti, secondo il curatore della ricerca presentata in occasione del Diversity Brand Summit, vorrebbe dire includere nelle campagne di comunicazione le diversity, fare prodotti ad hoc per certi target, come negozi per disabili o per persone anziane, iniziative per persone con disabilità e problemi economici.

 

LA MATERNITÀ COME DIVERSITÀ. Ma la diversità è una risorsa per le aziende anche in un altro senso: aumenta la creatività e la produttività. Le diversità possono essere di vario tipo. Anche una donna e una mamma può essere diversa a seconda del posto di lavoro in cui capita. Al Diversity Brand Summit Federica Calcaterra, Communications Manager di Airbnb, ci ha raccontato la sua storia.

diversity brand summit
Federica Calcaterra, Communications Manager di Airbnb.

«Nell’azienda in cui lavoro io erano tutti ragazzi che avevano meno di trent’anni, e nessuno di loro aveva figli» ricorda. «Entri e ti rendi conto immediatamente di essere diversa. In altre aziende non mi ero mai sentita tale. Passato il primo momento di sorpresa, inizi a scontrarti con la quotidianità». Che è fatta di giornate e ritmi cadenzati secondo esigenze diverse dalla «C’era l’abitudine, tutte le volte che arrivava qualcuno dall’estero, di fare cene o aperitivi fuori» ci racconta la manager. «Mi trovavo sempre a dire non posso, o di andare e guardare l’orologio. Non si tratta di avere una elasticità per cui gli appuntamenti extralavorativi non sono obbligatori, ma di non mettere le persone in una condizione di dover sempre recitare. Perché crea sempre un disagio. Il caso potrebbe anche essere un altro, ad esempio un pomeriggio hot dog, quando hai una persona musulmana. Il modo giusto di approcciare la diversità è creare le condizioni per cui non venga mai percepita come un limite, stai sottolineando il loro». Grazie alla disponibilità dell’azienda le esigenze di Federica sono state ascoltate.

«Airbnb ha un codice etico preciso ed esteso dove uno dei punti è l’impegno di tutti i manager che le persone si sentano a proprio agio nel momento in cui lavorano» ci spiega. «Abbiamo cercato soluzioni diverse: ora, quando arriva un ospite, invece che la cena fuori si fa un pranzo in ufficio. E sono cambiati anche gli offsite, le riunioni fuori ufficio che durano più giorni, con momenti di lavoro alternati a momenti di svago. Siamo arrivati al compromesso che i momenti lavorativi venissero concentrati in una giornata e quelli di svago nei giorni successivi, in modo che si potesse scegliere se parteciparvi o meno».

La storia di Federica ci ricorda anche come la diversità possa essere una ricchezza. «Penso che le persone che portano una diversità creino comunque le condizioni per iniziare a mettersi nei panni degli altri» riflette. «Siamo un’azienda che lavora con il turismo, il target erano i ragazzi di 30-35 anni che girano le capitali europee. Crescendo abbiamo capito che il mercato più importante è quello delle famiglie. Così ho ricevuto tante domande, su quando iniziassi a prenotare le vacanze, su che cosa fosse la prima cosa che guardo, quali fossero le mie paure. Non sono ricerche di mercato, ma avere all’interno una persona che può portare un primo esempio personale, che ti fa accendere sempre lampadine diverse è molto importante».

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