RAZZISMO 2.0: UNA SFIDA PER LA SOCIETÀ CIVILE

Bufale e discorsi d’odio, virus che contagiano web e social... L’intolleranza viaggia in Rete e il mondo del non profit reagisce

Questo articolo sull’hate speech nei confronti degli immigrati  è tratto dal  n.2/2017 del trimestrale VDossier.

L’estate scorsa, per l’ennesima volta, un maldestro tentativo di satira non è stato riconosciuto come tale ed è diventato una bufala razzista, un altro hate speech, che si è diffusa viralmente su Facebook. Si trattava di una foto con due uomini di colore, seduti su una panchina a Forte dei Marmi, con vestiti sportivi ma firmati e borse stile shopping di lusso. Un giornalista, Luca Bottura, ha sovrapposto all’immagine la scritta «Risorse boldriniane a Forte dei Marmi, fanno shopping da Prada coi 35 euro. Condividi se sei indignato».
Gli “indignati” l’hanno presa alla lettera, anche perché non hanno riconosciuto nei due soggetti fotografati l’attore Samuel L. Jackson e il cestista Nba Magic Johnson. Hanno quindi condiviso il post, corredandolo di commenti pieni di insulti e rancore verso i migranti, la presidente della Camera, Laura Boldrini, le Ong e via dicendo.

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La bufala con Magic Johnson

È stata l’ennesima prova di quanto il web, e in particolare i social network, siano diventati i luoghi in cui maggiormente si esprimono la disinformazione, l’intolleranza, il razzismo. Del resto, basta fare una piccola prova con i motori di ricerca: digitando su Google “I negri sono”, automaticamente compare l’elenco delle espressioni più cercate, che in questo caso risultano essere nell’ordine: “sono una razza inferiore”, “meno intelligenti”, “bestie”, “tutti uguali”. Non sono diversi i risultati proposti da Bing: sono “meno intelligenti”, “scimmie”, “più stupidi”, “animali”, “molto malati”.

 

IL RAZZISMO SUL WEB.  Poiché la realtà virtuale non è cosa “altra” rispetto alla realtà fisica, ma ne è un prolungamento, o l’espressione, è chiaro che questi modi di pensare e questi sentimenti sono nelle persone, prima che sul web, e questo è il vero punto della questione. Ciò nonostante la diffusione dei discorsi d’odio (hate speech) è un fenomeno relativamente nuovo, perché è letteralmente esploso grazie al policentrismo della Grande Rete (siti, blog, social network); alla gratuità e alla facilità del suo uso, che mette in mano a ogni cittadino strumenti di comunicazione dal potenziale altissimo, che forse non è in grado di  governare; perché è legittimato da alcuni attori politici; perché è spesso vissuto come una forma di attivismo, che può tracimare dalla dimensione virtuale a quella fisica.

Quantificare il fenomeno è difficile, ma è indicativa la mappa dell’intolleranza su Twitter, di cui nel 2016 Vox Diritti (Osservatorio italiano sui diritti) ha pubblicato la seconda edizione. Dei quasi due milioni e 660mila tweet analizzati tra agosto 2015 e febbraio 2016, quasi il 16 per cento conteneva parole d’odio. In questo caso, target preferito sono le donne (63 per cento dei contenuti offensivi), seguite da comunità LGBT – Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender – (11 per cento), migranti (10 per cento), musulmani (6,6 per cento), disabili (6,4 per cento) e infine ebrei (6,2 per cento). Le regioni più intolleranti sono Lombardia (16mila 400 tweet), Umbria (12mila 700) e Lazio (12mila 200): se è ovvio che dalle regioni più popolose parta un maggior numero di tweet, non può non stupire il dato dell’Umbria.

 

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La mappa dell’intolleranza contro gli immigrati realizzata da Vox Diritti

I messaggi di odio, comunque, hanno una grande capacità di penetrazione tra i navigatori del web: secondo un sondaggio SWG del maggio 2017, il 36 per cento di coloro che navigano in Rete fa regolarmente i conti con contenuti volgari, offensivi, violenti, intolleranti e insultanti; un altro 47 per cento li ha incrociati in modo più occasionale.
Può sembrare poco, ma corrisponde al 40 per cento della popolazione italiana. Secondo questo sondaggio, le categorie più colpite dall’odio sono: migranti (32 per cento), politici e omosessuali (30 per cento), donne (27 per cento), minoranze (21 per cento) e musulmani
(15 per cento).

Sui social, chi vuole diffondere discorsi d’odio sui migranti si serve soprattutto di due strumenti: le bufale e i commenti. Le bufale, o per meglio dire le fake news, non nascono mai per caso: sono inventate facendo leva sui luoghi comuni che impregnano l’opinione
pubblica e sono confezionate in modo da intercettare la rabbia dei cittadini. È difficile contrastarne la diffusione perché è più facile credere a ciò che è falso, se corrisponde ai nostri preconcetti, che accettare la verità, se li contrasta.
I commenti sono modi di intervenire su contenuti di qualunque tipo – dal post della presidente della Camera, Laura Boldrini, all’articolo del “Corriere della Sera” – ed anche questi sono difficilmente contrastabili, perché suscitano l’immediata solidarietà dei molti che condividono il sentimento di odio o che hanno voglia di sfogarsi.

 

LA POLITICA. Chi sono coloro che producono e rilanciano hate speech e razzismo sul web? In parte sono cittadini, arrabbiati per la crisi, per la riforma delle pensioni e per chissà quali altri motivi. Trovano in uno strumento semplice e immediato, che frappone uno schermo tra loro e gli altri, la via di sfogo. In genere però i singoli cittadini, più che produrre contenuti, li rilanciano e commentano.
Grandi produttori di hate speech sono invece le forze politiche, che hanno legittimato linguaggi e contenuti dentro e fuori la Grande Rete. Ad esempio, negli Stati Uniti, il Tea Party è stato tra gli artefici della crescente intolleranza nei confronti dell’immigrazione messicana e Trump ne è stato efficace continuatore, sdoganando un linguaggio
politico fondato sulla xenofobia. In Italia abbiamo l’esempio della Lega, in Francia quello dell’Ump di Marine Le Pen, in Gran Bretagna l’Ukip di Nigel Farage: tutti hanno ottenuto successi alle elezioni europee del 2014, grazie ai messaggi contro l’immigrazione.

Il tema della capacità delle forze politiche e delle aggregazioni di estrema destra di usare i social per propagandare le proprie idee e diffondere messaggi contro l’immigrazione è tra quelli approfonditi nella ricerca su “Discorsi d’odio e social media. Criticità, strategie e pratiche di intervento”, condotta da Cittalia, la Fondazione per la ricerca dell’Anci, e dall’Arci all’interno del progetto Prism (“Preventing, redressing and inhibiting hate speech in new media”). Emerge che per le forze e i gruppi politici le parole chiave dell’intolleranza
sono quelle legate alla retorica populista, più che quelle esplicitamente d’odio, in particolare: “popolo”, “sovranità”, “italiani” e “immigrati”.

 

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Bufala dal sito “senza Censura”, poi chiuso dalla Polizia Postale

I SOLDI. C’è chi, invece, produce e diffonde hate speech perché fa guadagnare. Poiché Google Adsense fornisce pubblicità in base al numero di click ottenuti, ci sono siti nati solo per questo. E i contenuti razzisti, purtroppo, sono tra quelli di “successo”.
Nel 2015 l’“Espresso” ha pubblicato un articolo (“Vi racconto come ho fatto soldi a palate spacciando bufale razziste sul web”) in cui Maurizio Di Fazio intervistava uno studente che aveva aperto un sito di questo genere, poi chiuso dalla Polizia postale, che ha spiegato: «Le mie notizie erano palesemente false. Ma diventavano immediatamente
virali. E io guadagnavo sempre di più».

 

IL PROBLEMA DELLE REGOLE.  Il problema dell’hate speech e del razzismo sul web ha suscitato un ampio dibattito sul tema delle regole. È possibile intervenire per legge? Come evitare che le azioni di regolamentazione diventino forme di censura? In che misura i grandi gestori del web sono responsabili dei contenuti che gli utenti pubblicano e condividono?
Non possiamo qui entrare nel merito di questo complesso dibattito, ma possiamo almeno accennare al fatto che, al momento, la strada scelta in Europa sembra essere quella dell’autoregolamentazione, attraverso policy adottate, spesso su pressanti inviti dei Governi, dalle varie aziende IT – Facebook, Twitter, Youtube, Microsoft, Google – o
attraverso codici di condotta.

Uno è stato annunciato il 31 maggio dalla Commissione Europea: proprio per garantire che Internet rimanga un luogo di espressione libero e democratico, le aziende firmatarie (Facebook, Twitter, Youtube e Microsoft) si sono impegnate a intensificare gli sforzi per combattere i discorsi di odio, anche rimuovendo o disabilitando l’accesso a questi contenuti in meno di ventiquattro ore.
Nello stesso tempo, il Codice di condotta le impegna a promuovere le “contronarrazioni” (“Identifying and promoting independent counter-narratives, new ideas and initiatives and supporting educational programs that encourage critical thinking”), anche rafforzando
il partenariato con le organizzazioni della società civile.

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Carta di Roma ha verificato come Facebook interviene sull’hate speech

In realtà alcune aziende IT, come Facebook, si erano già impegnate a rimuovere i messaggi di odio. Operazione peraltro non facile, perché si presta ad arbitrarie interpretazioni: dove finiscono l’espressione di dissenso e la vis polemica, e dove iniziano l’odio e la discriminazione?

È chiaro che gli operatori che intervengono (Facebook non si serve di algoritmi, ma di persone) possono essere influenzati da interpretazioni personali e incomprensioni, o semplicemente fare errori. L’associazione Carta di Roma ha verificato l’efficienza di Fb nel rimuovere i contenuti d’odio: ha segnalato cento commenti che incitavano all’odio, ma il social network ne ha rimossi solo ventinove, in media ventinove ore dopo la segnalazione.
Ha inoltre potuto constatare che «alcuni commenti, a parità di forma e contenuto, sono stati rimossi, altri no: è il caso, per esempio, dell’espressione “buttateli in mare”».

 

LA SOCIETÀ CIVILE. Se sul piano normativo la possibilità di contrastare il discorso d’odio rimane un problema aperto, sul piano dei progetti e delle azioni molte realtà hanno avviato iniziative di contrasto. L’hanno fatto alcuni enti pubblici (a partire dal progetto NoHate Speech avviato nel 2013 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri per permettere di segnalare episodi di odio in Rete), ma anche molte realtà non profit, che hanno visto in questo problema una vera emergenza culturale. Per questo si sono mosse su più livelli: quello della ricerca e dello studio del fenomeno, quello delle campagne di comunicazione, quello dell’impegno nell’ambito educativo-formativo.

Facciamo solo alcuni esempi, cominciando con Cospe: all’inizio del 2016, l’Ong ha pubblicato “L’odio non è un’opinione. Hate speech, giornalismo e migrazioni”, una ricerca che analizza il problema sui social e nell’informazione e che è stata realizzata nell’ambito del progetto europeo “BRIKCS-Building Respect on the Internet by Combating
Hate Speech”.

 

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La campagna Milioni di Passi di Medici Senza Frontiere

L’Anti-slogan è, invece, una campagna di comunicazione lanciata da Medici senza Frontiere per sfatare «le dieci leggende più diffuse sulla migrazione» . Individuati i dieci pregiudizi più condivisi («Ci portano le malattie»; «li trattiamo meglio degli italiani»; «aiutiamoli a casa loro»; «hanno pure lo smartphone»; «vengono tutti in Italia. Sono troppi!»; «sono tutti uomini giovani e forti»; «ci rubano il lavoro»; «non scappano dalla guerra»; «sbarcano i terroristi»; «sono pericolosi»), li confuta uno ad uno attraverso brevi testi molto comprensibili, con dati e informazioni oggettive. Il materiale è confluito nel sito “Milioni di Passi”.

Unisce impegno per la ricerca e preoccupazione educativa il già citato progetto di Cittalia e Arci, che tra l’altro ha avuto l’appoggio anche di Facebook. L’ultima parte del rapporto “Discorsi d’odio e social media. Criticità, strategie e pratiche di intervento”, propone un manuale operativo utile come base per percorsi di formazione nei contesti
educativi.

Infine, non riguarda strettamente i migranti, ma sicuramente i discorsi d’odio insieme ai processi di radicalizzazione, il progetto BRAVE – Building Resilience Against Violent Extremism, promosso dal Csv di Belluno insieme a CSVnet con la partnership di otto associazioni non profit di altrettanti Paesi europei, africani e del Medio Oriente: Tunisia,
Giordania, Portogallo, Georgia, Malta, Croazia, Marocco e Spagna. Utilizzando metodologie partecipative di prevenzione e risoluzione dei conflitti, il progetto punta a far crescere la consapevolezza del fenomeno della radicalizzazione violenta e dell’hate speech, dando un contributo per contrastarlo e promuovendo una contronarrazione che mette al centro il rispetto dei diritti umani, la democrazia e il dialogo.

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