LA ROTTA BALCANICA: I MIGRANTI CHE NON VOGLIAMO VEDERE

Chiusi in strutture inadeguate o addirittura costretti a sopravvivere nei boschi, vittime di violenze di ogni tipo, senza speranza. I diritti umani sono morti sulla rotta balcanica

Siamo stati per anni a litigare sui migranti e sugli sbarchi in Sicilia. Ma nessuno vuole vedere che le migrazioni seguono anche altre rotte. Una di queste, di cui si parla pochissimo, è la cosiddetta “rotta balcanica”, su cui il 27 e 28 novembre scorsi si è tenuto un convegno internazionale, “Sulla rotta balcanica”, organizzato dalla Rete nazionale Rivolti ai Balcani, composta da oltre 36 organizzazioni, in collaborazione con il Festival S/Paesati e con il patrocinio dell’Università degli Studi di Trieste. Parlarne vuol dire provare a far luce su un fenomeno quasi completamente ignorato dai media.

La rotta balcanica – che poi non è una sola ma sono più rotte – è il percorso che i migranti fanno per arrivare in Europa, passando per la Turchia, la Grecia, l’Albania, la Bosnia, a volte la Serbia e il Montenegro, e la Croazia, dove spesso si interrompe bruscamente. Arrivati alle porte dell’Europa, intesa come Unione Europea, quasi sempre i migranti, che spesso sono intere famiglie con bambini, vengono bloccati e lasciati in un limbo, in campi profughi. Questo quando non vengono picchiati, torturati, privati dei loro beni, dai cellulari fino alle scarpe, dalle forze di polizia.

I campi in Bosnia, dove manca l’aria

Aprire gli occhi sulla rotta balcanica significa davvero spalancare un Vaso di Pandora. Tra le tante voci, tutte interessanti, che abbiamo ascoltato da Trieste ci siamo soffermati su quella di Silvia Maraone, project manager dell’Ong Ipsia-Acli, che con le sue parole ci ha fatto vivere le condizioni di chi si trova nei campi di accoglienza in Bosnia Erzegovina, un paese complesso e frammentato – in seguito alle decisioni politiche del 1995 dopo la fine del conflitto – il che rende la presa di ogni decisione lunghissima. Tutti i migranti sono persone che poi registrano la loro posizione di richiedente asilo all’interno del Paese – anche se spesso vengono chiamati illegali e clandestini – e hanno tutto il diritto di stare nel paese e di poter usufruire dei sistemi di accoglienza che sono stati creati per i richiedenti asilo.

 

Rotta Balcanica
Il Centro accoglienza Bira-Bihac (Foto Archivio IPSIA)

«La verità è che i centri, seppure in maniera diversa, sono ai livelli minimi degli standard di accoglienza», racconta Silvia Maraone. «Le persone che vivono nei campi lamentano problemi come sovraffollamento, condizioni igieniche sanitarie inadeguate, inadeguato numero dei servizi igienici, cibo scarso e a volte immangiabile.  Ci sono costanti problemi con l’elettricità e internet che funziona a singhiozzo». «Posso dire dalla mia diretta esperienza, che entrare in un campo profughi significa entrare in un mondo a parte, fatto di un rumore di sottofondo costante, generato dal mix delle lingue diverse che si parlano nel campo, e dalla musica – sempre in lingue diverse – che viene fatta sentire attraverso le casse Bluetooth» continua la rappresentante della Ong. «Poi ci sono le suonerie e gli avvisi di messaggi dei cellulari, che sono costantemente accesi a qualunque ora del giorno e della notte, perché le persone sono in contatto con i loro cari, con le loro famiglie, con altre persone che sono in viaggio».

«Un’altra sensazione fortissima, stando nei campi profughi, è quella di un luogo nel quale manca sempre l’aria» racconta Siliva Maraone. «L’aria è viziata e campi sono sovraffollati, per cui manca l’ossigeno. Le luci sono sempre accese e un altro impatto fortissimo è dato dall’odore che c’è all’interno del campo: un odore fatto di umanità misto a quello dei gabinetti, che non sono sufficienti per il numero di persone. Le persone che vivono di questi centri di accoglienza perdono ogni possibilità di avere una propria privacy. I single men vivono in container, o in baracche o nelle vecchie caserme, in grandi tendoni con dentro 250 letti a castello, sono situazioni in cui non esiste più nessuna possibilità di stare anche da soli, anche per poco».

Dipendenze e abusi sui minori

Si può facilmente immaginare quale sia lo stato di depressione generale, che aleggia tra le persone all’interno dei campi. «I giorni passano tutti uguali, si deve fare la fila per ogni cosa, dalla distribuzione del cibo ai prodotti igienici ai vestiti», racconta la project manager di Ipsia -Acli.

 

Caj Corner nel Centro accoglienza Bira-Bihac (foto archivio SPSIA)

«Ci sono spesso tensioni e violenze che scoppiano tra le fila dei migranti, a volte diversa nazionalità. Ma, soprattutto, spesso sono state segnalate violenze e abusi anche da parte delle compagnie di sicurezza private che operano nel campo. C’è anche il problema dei traffici illegali: le persone sono in viaggio da anni e sono bloccate alla porta di questa Europa che non li vuole, e alcuni di loro hanno come unica uscita da questo limbo l’abuso di sostanze come alcol e droghe, che non mancano sul mercato bosniaco. C’è stato un caso di un ragazzo, un anno fa, che è morto al campo di Bihac, era un minore non accompagnato che lamentava lancinanti dolori addominali: solamente dopo ore hanno chiamato l’ambulanza per portare questo ragazzo in ospedale ma è morto. Sul referto c’è scritto che è morto di polmonite, ma la verità, parlando con i suoi compagni di container, è che aveva preso troppe pastiglie ed è morto per un’overdose». Sono infatti molto diffusi pericolosi mix di medicinali e psicofarmaci mischiati agli energy drink o alcolici, perché non è difficile trovare della droga o andare in farmacia e farsi dare farmaci senza ricetta».

Ma capita anche che ci siano degli abusi che i minori non accompagnati subiscono all’interno nei campi in cui vengono tenuti insieme agli adulti, all’interno delle stesse strutture. Ci sono minori che viaggiano da soli che, in cambio di protezione o a volte anche per soldi, sono costretti a vendere l’unica cosa che è rimasta loro, ovvero il proprio corpo».

Manca il personale qualificato

Ma c’è un altro grande problema che viene evidenziato dagli addetti ai lavori: è il fatto che nelle organizzazioni che lavorano all’interno dei campi, grandi o piccole che siano, non sempre ci sono le persone adatte per il lavoro che dovrebbero fare. «Nei Balcani manca il personale qualificato, con una formazione adatta per lavorare con i richiedenti asilo» spiega Silvia Maraone. «Questo perché purtroppo la società civile e l’associazionismo qua sono molto deboli e quindi è difficile trovare persone qualificate in grado di fare questo lavoro». Come se non bastasse, a partire dall’autunno del 2018 i primi gruppi di cittadini xenofobi hanno cominciato a organizzare le prime proteste di piazza contro i migranti, dando vita, nell’estate del 2020, a una caccia ai migranti.

Il Covid non aiuta

Un altro effetto di queste ondate di migrazione è una sorta di “criminalizzazione della solidarietà” che è stata legittimata anche con le misure anti Covid. Nella tarda primavera di quest’anno è arrivato il divieto da parte del governo di far arrivare aiuti nei campi, se non con le organizzazioni come la Croce Rossa; per evitare che si formino assembramenti si è pensato di fermare anche i volontari che distribuivano loro aiuti.

 

rotta balcanica
Volontari distribuiscono il té (foto Archivio IPSIA)

«Con il Covid i migranti non si possono spostare liberamente, perché rappresentano un pericolo in quanto potenziali portatori del virus», spiega Silvia Maraone. «La direttiva impone totale divieto di movimento dei migranti al di fuori delle strutture di accoglienza temporanea, in treno, auto, furgoni, taxi, e su tutti gli altri mezzi di trasporto.  Queste persone si sono trovate a non poter uscire per comprare banalmente le sigarette o qualcosa per i bambini. Ma, soprattutto, si sono viste intrappolate nei campi, senza la possibilità di mantenere le distanze, senza mascherine, senza igienizzanti, senza bagni e quindi con un rischio di contagio elevatissimo».

Con la chiusura dei campi non sono state accettate nuove registrazioni, e sono rimaste fuori nei campi almeno 3000 persone, che dormono nei boschi e negli edifici abbandonati e vivono di quello che riescono a trovare.

Il sadismo e la tortura

Massimo Moratti, vice direttore dell’ufficio per l’Europa di Amnesty International, ci illustra il perché, nei paesi ai confini dell’Europa, stiano accadendo queste cose. «Sono politiche di esternalizzazione delle politiche migratorie dell’Unione Europea», spiega. «L’Europea chiede ai Paesi che stanno fuori di gestire i flussi. E, mentre con la Libia e con la Turchia avviene attraverso accordi formali, con i Paesi della regione balcanica non ci sono accordi per la gestione delle migrazioni. Croazia e Ungheria sono paesi che rappresentano le frontiere esterne dell’Unione Europea, in mezzo ci sono Bosnia, Serbia, Macedonia, Montenegro: questi Paesi si trovano in una posizione subordinata rispetto all’Unione Europea, perché chiedono di entrare, quindi non è un negoziato alla pari».

Tutto questo incide sulle modalità di intervento delle diverse forze di polizia di questi stati lungo la rotta balcanica. «Sembra che le forze di polizia si stiano quasi passando gli appunti» riflette Moratti. «Le modalità di operazione della polizia sono quasi un “cut and paste”, un copia e incolla dall’una all’altra: quello che facevano gli ungheresi hanno fatto i poliziotti croati e questo questa primavera l’hanno fatto anche i poliziotti greci. Sono trattamenti disumani e degradanti che non abbiamo esitato a definire anche tortura. L’impunità delle forze di polizia continua e addirittura cresce: gli ultimi episodi, a ottobre, hanno ancora una volta in alzato l’asticella della violenza. Addirittura vediamo episodi di vero e proprio sadismo che vengono perpetrati nei confronti di coloro che cercano di entrare in Europa. Che Amnesty International ha denunciato».

Per sostenere Ipsia-Acli e le sue attività sulla rotta balcanica è in corso una raccolta fondi. Pe donare, basta andare a questo link.

 

Se avete correzioni o suggerimenti da proporci, scrivete a comunicazionecsv@csvlazio.org

 

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