LAURA COCCIA: NON CI SONO RAGIONI PER NASCONDERSI

La parlamentare del PD si racconta e spiega perché un disabile non deve temere di mostrare il proprio corpo.

«Quella foto mi è costata, così come, ai tempi,  mi è costato mettere canottiera e pantaloncini per fare le gare di corsa», dice alla giornalista la ragazza con gli occhi grigio-azzurro che ridono, ingenerando nella giornalista di cui sopra una certa dose di dissonanza cognitiva, perché la ragazza che parla è affetta da una disabilità piuttosto grave, eppure sorride tutta, non solo con gli occhi. «Sa, in casa a volte si coprivano gli specchi perché io mi vergognavo a guardare il mio corpo, le cicatrici. E non ha idea di quante volte avrei voluto mettere i tacchi a spillo, soprattutto da adolescente. Ma quando ho capito che io volevo correre e gareggiare, e per gareggiare occorre indossare canottiera e pantaloncini e farsi vedere così allo stadio, l’ho fatto. E quella fotografia che mi ha scattato Luca (suo marito, Ndr) l’ho pubblicata su Facebook perché volevo trasmettere a chi, come me, ha avuto o ha problemi con il suo corpo per la sua disabilità o per altro, che non ci sono mai abbastanza ragioni per chiudersi dentro casa e bloccarsi». Si ferma un momento, riflette e poi: «Certo non mi aspettavo tutta questa risonanza mediatica». Puntini di sospensione, riflette ancora. «Evidentemente ce n’era bisogno».

La foto in bikini che l'onorevole Coccia ha pubblicato su Facebook
La foto in bikini che l’onorevole Coccia ha pubblicato su Facebook

Ecco Laura Coccia, 29 anni, romana, deputata del Partito democratico alla prima legislatura, campionessa italiana per la categoria disabili nei 100 metri, affetta da tetraparesi spastica a causa di un’infezione contratta dopo la nascita. Una patologia invalidante che ha saputo vincere grazie a una determinazione di ferro, a una certa propensione alle sfide e alla competizione («ce l’ho nel sangue»), a una rete familiare decisiva e a qualcuno di quegli incontri che nella vita fanno la differenza, come quello con il suo insegnante di educazione fisica delle scuole medie: la persona che l’ha portata a pensare di poter gareggiare. È lei che qualche settimana fa ha pubblicato su Facebook la ormai famosa  fotografia in bikini allo specchio, accompagnata da un post in cui diceva alle adolescenti che si vedono brutte, alle disabili che soffrono per il loro corpo, alle ragazze tutte che sono convinte «di non poter reggere il confronto con i modelli di donna stereotipati», che «bella è solo un aggettivo ed anche soggettivo, non c’è mai nulla di cui vergognarsi nel proprio fisico».

 Di che cosa c’era bisogno onorevole?
«Chissà, forse di squarciare il velo sul corpo dei disabili e più in generale sulle percezioni del proprio corpo. E di qualcuno che partisse da sé per far vedere che si può uscire dallo scacco in cui ci si trova se, per una ragione o per l’altra,  si ha una complicata relazione con il proprio corpo. La disabilità non è colpa di nessuno, anche quando ti sembra di poter attribuire la responsabilità a qualcuno. Disabile ci nasci o ci diventi. Dopodiché puoi chiederti mille volte: “Perché è toccata a me?” . E una volta che te lo sei chiesto, che ci fai? Anch’io ho domandato a mia madre: “Perché mi hai voluto sapendo che c’era un rischio così alto?”»

La sua patologia è legata a una gravidanza problematica?
«No. Io sono nata prematura dopo una gestazione difficile, ma ero sana. Ho contratto un’infezione a  venti giorni dalla nascita, sono entrata in coma, si pensava non ce la facessi. Invece mi sono ripresa. Ho cominciato a camminare a 4 anni, si attribuiva il ritardo alla nascita precoce, invece era dovuto all’infezione che ha portato alla tetraparesi».

Eravamo al “Perché è toccata a me?”
«Me lo sono chiesto anch’io. Anch’io so che cosa vuol dire avere dei sogni e dei sogni infranti. Il punto, però, è che cosa vuoi fare, che vita vuoi vivere. Nei limiti dati e forse anche oltre i limiti dati. Lottare contro  l’inerzia dell’immobilità emotiva nella quale ti può spingere una disabilità invalidante. Ma anche contro i modelli imposti, gli stereotipi sul femminile: ho pubblicato su Facebook quella foto anche pensando a tutte quelle ragazze che arrivano a punti estremi per dimagrire ad ogni costo, nell’ossessione di perdere peso fino a intaccare il proprio benessere fisico. Ognuno di noi ha qualcosa che non gli piace, io penso che la cosa si possa affrontare».

Ci racconti di lei, ci aiuti a capire da dove arriva un percorso così fuori dall’ordinario.
«La diagnosi di tetraparesi è arrivata a tre anni e anche i miei genitori hanno saputo reagire, senza risparmiarsi mai: fisioterapia e piscina tutti i giorni con mia madre, corsa e sport con mio padre. Ha fatto anche l’ippoterapia. Con i miei si è instaurato un rapporto forte. E del resto la patologia che hai ti porta giocoforza a vivere in un mondo di adulti, perché non puoi muoverti come fanno gli altri bambini. Devo dire che a scuola, alle elementari, le maestre hanno vissuto il mio problema un po’ come se fosse un loro problema».

In che senso?
«Nel senso che quando entravano in campo le attività motorie non potevo fare quello che facevano gli altri. Nelle partite, per esempio, non potevo giocare. In quarta elementare siamo arrivati all’apice di questo atteggiamento: alla recita scolastica mi hanno fatto fare la grotta. Ho chiesto perché. “Perché così stai seduta e non si vede”, mi è stato risposto. Insomma, non potevo pretendere la stessa vita degli altri bimbi».

Le cose cambiano con l’approdo alle scuole medie.
«Il mio professore di educazione fisica mi ha guardata e mi ha detto: “Tu ti muovi come gli altri”. A me piaceva la corsa, l’avevo fatta con mio padre. Il professore mi ha presa per mano e mi ha fatto correre con lui. Non aveva una preparazione specifica sulla disabilità, siamo “cresciuti” insieme. E così piano piano ho anche imparato a stare con i miei coetanei, che erano disorientati dalla mia malattia e lo dimostravano anche con gesti poco gradevoli: di dispetti ne ho subiti parecchi, di vario genere».

Laura Coccia con il marito
Laura Coccia con il marito

La corsa ha fatto la differenza.
«Ho cominciato a partecipare ai Giochi sportivi studenteschi. Nel 1998 ho gareggiato con nelle categorie standard: 1200 metri di marcia, arrivavo dopo, ma arrivavo. Poi il mio allenatore mi ha spinto a gareggiare per i 400 metri nella categoria disabili, nel frattempo introdotta nei Giochi studenteschi.  A 17 anni, nel 2003,  ho vinto il primo titolo italiano sui 100 metri nel campionato italiano della Fisd (Federazione italiana Sport disabili, Ndr). Poi nel 2005 sono stata convocata in Nazionale per partecipare ai campionati europei, dove mi sono classificata al quinto posto. Nel tempo ho conseguito il record italiano per i 200 e 400 metri outdoor e per i 60, 200 e 400 indoor. Quando ho iniziato a fare i giochi sportivi studenteschi, nel ’98, io ero l’unica disabile, nel 2004, quando ho smesso, i disabili erano 50: una buona cosa».

Sfide e record partendo da una tetraparesi spastica: ci vuole molto carattere.
«Mi piace la corsa, mi piace competere, forzare i limiti che mi sono stati imposti. La mia storia è diventata la tesi di laurea del mio allenatore, perché a suo modo è la dimostrazione  che avevamo vinto sulla fisiologia tradizionale: io potevo correre».

Doti e talento personale, oltre a una valida rete familiare e a incontri “della vita”, l’hanno aiutata a fare tutto ciò che ha fatto. Una bella vittoria, una storia esemplare. Ma non tutti i disabili sono come lei o vivono situazioni analoghe. Pensando a loro, quali sono le policy da mettere urgentemente in campo?  
«Io ho avuto la fortuna di avere la forza di superare la disabilità, ho avuto una storia che me lo ha permesso. Ma ci sono cose da fare per sostenere il percorso verso l’autonomia dei disabili. A partire dagli emendamenti che io ho proposto alla “Buona scuola” e che sono stati accolti».

Quali?
«Puntano a garantire la continuità negli anni dell’insegnante di sostegno, il quale deve essere innanzitutto focalizzato sul sostegno, cioè avere una competenza e un ruolo specifici,dopodiché deve seguire la classe per almeno un ciclo di studi. La continuità è fondamentale in ogni caso, ma a maggior ragione se si pensa alle disabilità “intellettive”, per esempio alla difficoltà di chi è affetto da autismo di instaurare un rapporto personale con qualcuno: come è possibile se l’insegnante che dovrebbe “sostenerti” se ne va ogni sei mesi? E poi diventa fondamentale, nel percorso di sostegno e in quello scolastico, andare a verificare e stimolare ogni singola capacità dei disabili. Mi spiego: a me non interessa cosa NON sanno fare, ma cosa sanno fare e partire da lì e poi saranno loro a trovare la strada per sviluppare ciò che va sviluppato. Chiediamoci perché ci sono così pochi disabili laureati».

Fin qui sulla scuola e sui percorsi formativi. Ma c ‘è anche il lavoro.
«Il problema esiste. Molti imprenditori preferiscono pagare una multa piuttosto che assumere persone con problemi di disabilità o magari le assumono con ruoli più che residuali. Con il Jobs act abbiamo cercato di incrementare il numero di disabili nel mondo del lavoro, ma la chiamata nominativa non funziona. Bisogna ragionarci ancora».

Prima lei diceva che non è stato facile entrare in relazione con i suoi coetanei, uscire dal recinto delle relazioni con gli adulti e con i disabili
«È così, e bisogna procedere a piccoli passi. Intanto io ho dovuto imparare ad accettare il fatto che gli altri non conoscono o conoscono approssimativamente la tua disabilità e possono anche essere spaventati o disorientati. Quando sono arrivata al liceo (scientifico, Ndr), ho detto ai miei compagni: “Fatemi tutte le domande che avete, non abbiate paura di ferirmi: se non conoscete quello che ho, non potremo mai instaurare una relazione”. Ho cominciato a uscire da sola con loro, cose banali come un gelato o un cinema, ma fondamentali. Fino ad arrivare a ballare in discoteca. Se scosti  le barriere della disabilità e ti avvicini all’altro, per l’altro sei come lui. La distanza si riduce, arriva anche a colmarsi.
E poi è stata decisiva l’università. Ho conosciuto persone meravigliose: a 20 anni sono stata tre giorni a Parigi con una compagna di università, senza che nessuno mi accompagnasse. È stato un modo per mettermi alla prova. Poi lei è partita per fare l’Erasmus a Lisbona e  io sono andata a trovarla, sempre da sola. È stato lì che mi sono detta che l’Erasmus potevo farlo anche io. L’ho fatto: sono partita per Lipsia. Da sola. Sei mesi».

Esperienza fondamentale?
«In quei sei mesi a Lipsia mi sono emancipata davvero, ho rotto il cordone ombelicale. Va detto che lì era tutto accessibile per me: dai supermercati alle biblioteche, nessuna barriera. Potevo vivere liberamente. È stata importante anche l’esperienza con la coinquilina tedesca, che mi ha da subito trattata alla pari. All’inizio io ero  preoccupata perché in italia, nei rapporti con gli altri, hai sempre un po’ la sensazione di dover bussare. Senti che la prima cosa che arriva agli altri di te è la tua disabilità. In Germania questo non è mai successo».

E poi è arrivato Luca.
«Tornata da Lipsia ho incontrato il mio futuro marito alla sezione Pd del quartiere. Si era appena trasferito dal quartiere San Paolo. Lui aveva 36 anni e io 23. Dopo pochi mesi siamo andati a vivere insieme. (Ora Luca, che lavora a Tor Vergata nei servizi di orientamento ai disabili, l’accompagna nella sua attività di parlamentare, Ndr)»

Lei ha postato una foto che mostra il corpo di una disabile in bikini. Inevitabilmente la cosa riporta l’attenzione sul corpo dei disabili, di cui troppo spesso ci si dimentica:  i disabili hanno  un corpo e anche una sessualità. In questi mesi, nel nostro paese si è molto discusso dei cosiddetti assistenti sessuali a proposito di disabilità.
«Che ci si renda conto che i disabili hanno un corpo e una sessualità io lo ritengo un fatto positivo. Quanto al tema della “sessualità assistita”, è una cosa su cui sto riflettendo. Penso che per una persona con disabilità è sempre delicato instaurare relazioni con chi disabile non è e questo vale a maggior ragione quando si tratta di relazioni intime. La sessualità chiama in causa le relazioni umane nella loro totalità e complessità, anche perché quella sessuale è comunque una dimensione molto intima. Mi chiedo se non ci sia il rischio che chi riceve “assistenza” si illuda di vivere una relazione continuativa e duratura, anche se è tutto chiaro e definito. Penso sia una questione delicata da valutare con grande attenzione».

 

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