IL LAVORO MINORILE SI COMBATTE CON LA FORMAZIONE

168 milioni di bambini nel mondo sono coinvolti nel lavoro minorile, spesso con compiti insopportabili. Intervista con Paolo Rozera, di Unicef Italia

Gli allarmanti dati del lavoro minorile nel mondo, il fenomeno dei migranti in Italia, le politiche europee e la riforma Terzo settore. In occasione della Giornata Mondiale contro il lavoro minorile, che si celebra oggi,  ci siamo confrontati con Paolo Rozera, direttore generale di Unicef Italia.

Secondo l’organizzazione internazionale del lavoro, 168 milioni di bambini al mondo sono coinvolti nel lavoro minorile, sono morti sul posto di lavoro. Perché il diritto all’infanzia non è ancora garantito a tutti?

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Paolo Rozera, direttore Unicef Italia (foto E.Giuca)

«Quello del lavoro minorile è una delle tante piaghe provocata da noi adulti. Ricordiamoci sempre che in questi casi i bambini soffrono per colpa di uno o più adulti che li sfruttano. Un bambino che lavora non va a scuola, non vive la sua spensieratezza, spesso è un bambino che muore sul posto di lavoro quindi – tradotto – è un bambino che non ha futuro. Il dato più preoccupante che ci fornisce l’ILO è che questi bambini svolgono lavori eccessivamente pesanti anche per un adulto (pensiamo all’intensità del lavoro agricolo)».

Come spezzare questo meccanismo per garantire protezione sociale ai bambini?
«Per combattere questo fenomeno. Il lavoro minorile funziona e cresce lì dove c’è la povertà, dove le famiglie devono compensare le carenze di reddito. In passato si credeva che la soluzione fosse fare una crociata contro il lavoro minorile (anche l’Unicef la fece). Poi si capì che il problema era più di carattere sociale e strutturale, allora si cambiò prospettiva di azione. Se una famiglia ha bisogno che il figlio di 14 anni vada a lavorare, il nostro compito è quello di costruire un contesto e dei parametri che non vanno oltrepassati. Il bambino deve lavorare? Va bene, ma non può farlo più di 4 ore al giorno e gli si deve dare l’opportunità di formarsi contemporaneamente a scuola. L’Unicef sostiene anche economicamente le famiglie, facendo comprendere loro che la priorità è permettere ai propri figli di avere una formazione. L’interesse del bambino è sempre la nostra priorità».

I flussi migratori stanno portando in Italia tanti minori stranieri non accompagnati. Come evitare che questi bambini e ragazzi diventino oggetto di sfruttamento?
«Bisogna raggiungere la vera inclusione sociale. Penso che il Governo stia facendo un buon lavoro, ma può fare ancora di più per l’accoglienza. L’Italia non può che essere orgogliosa per regioni come la Sicilia, la Calabria, la Campania, la Puglia che stanno accogliendo tantissimo. Il problema è che, una volta accolti e messi in sicurezza, questi minori poi vanno gestiti. Pozzallo e gli altri approdi della Sicilia hanno una cultura dell’accoglienza eccezionale, ma vanno sostenuti e gestiti affinché questi minori non restino lì per molto tempo».

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(Foto Friedman-Rudovsky per Unicef)

L’Unicef ha annunciato che collaborerà con il Governo per gestire l’emergenza migranti. In cosa consisterà l’intervento di Unicef?
«Il 27 maggio scorso abbiamo firmato un accordo con il Governo per gestire quella parte di minori arrivati nei principali hotspot e centri di accoglienza delle nostre coste. Lavoreremo sugli standard delle strutture, perché vengano rispettati i diritti dei minori, si farà monitoraggio dei centri (inizieremo da Sicilia, Calabria e Campania) e infine si lavorerà sull’integrazione. Operativamente dobbiamo evitare che minori stranieri (soprattutto quelli non accompagnati) rimangano nei centri per 6 mesi, come accade oggi. È qualcosa di disumano che non possiamo più permetterci! Nel nord Europa è stato dimostrato come, in soli sei mesi, i volontari del posto riescano a insegnare ai migranti la lingua locale, ma soprattutto l’educazione civica locale. Grazie a questo accordo lavoreremo affinché questa buona pratica venga messa in atto anche nel nostro Paese. Il nostro compito consisterà nell’affiancare le organizzazioni e istituzioni locali, individuando gli standard minimi di trattamento dei minori. Dopo qualche anno ci sfileremo per farli operare autonomamente».

All’Europa cosa chiede?
«Innanzitutto c’è da dire che la Commissione si è svegliata solo quando c’è stata la migrazione via terra. Mi trovo d’accordo con il Presidente del Consiglio, quando dice di intervenire nei Paesi di origine, però ciò non può avvenire senza un’azione compatta di tutti i membri della Commissione. O ci si mette in rete, facendo sinergia tra tutti quanti, oppure qualsiasi intervento non sarà sufficiente. Da un anno a questa parte seguo la vicenda del Mediterraneo e sono arrivato alla conclusione che il mare non puoi fermarlo: è inutile pattugliare le acque, perché i barconi arriveranno sempre e comunque. E la strada non è né quella del blocco né tantomeno quella dei muri».

E se paesi come l’Austria si oppongono a queste iniziative? Bisogna imporsi anche senza il loro consenso?
«Se vogliamo fare l’Unione Europea evidentemente sì. La contaminazione di culture è un fenomeno già in atto, smettiamola di far finta di non vederlo! Il fenomeno migratorio adesso va gestito. Ci sono paesi del Nord Europa che ci hanno chiesto di accogliere minori che arrivano da noi. Quando capiremo che per noi questi flussi sono una risorsa e non solo un problema?»

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(foto Habibul Haque per Unicef)

Torniamo in Italia. L’inchiesta sulla pedofilia minorile alla stazione Termini ha riscoperto quella falla sociale in cui la capitale è arenata da anni. A questo si aggiunge l’indifferenza dei cittadini nel denunciare abusi e situazioni illecite. Come può risollevarsi Roma?
«Innanzitutto entrambi i candidati al ballottaggio romano hanno firmato un accordo per una tutela particolare nei confronti dei minori: chiunque governerà questa città dovrà quindi rispondere di questo accordo. Al di là dell’intervento delle istituzioni, c’è un male della società, a cui io do il nome di paura. Ci nascondiamo dietro la società che sta correndo sempre di più, però abbiamo sempre più timore dell’altro, del diverso, di quello che non conosciamo. E questo ci porta a conoscere le cose sempre più superficialmente perché non abbiamo tempo di approfondire. Viviamo in un’Italia che è piacevolmente contaminata e da questo dobbiamo trarne opportunità. Mettere di lato i pregiudizi e guardare negli occhi chi ci sta di fronte è il primo passo».

Riforma del Terzo settore. Bene la legge, ma quale futuro prospetta per un Terzo settore in cui il male maggiore da debellare è l’autoreferenzialità?
«Condivido pienamente il problema dell’autoreferenzialità. Quando un anno fa sono diventato direttore generale la prima cosa che ho fatto è stata prendere 26 persone (tra dipendenti, dirigenti, quadri ecc.) e portarli a visitare un’azienda privata di eccellenza. Il mio desiderio è stato quello di farli uscire dall’autoreferenzialità propria del nostro mondo. Anche qui il temine risolutivo da utilizzare è contaminazione: noi apprendiamo dal mondo profit tanto quanto i privati apprendono da noi. Dobbiamo smetterla di evitarci a vicenda. Il Terzo settore può essere vincente solo se lavora in rete. Mentre chi ci guarda dall’esterno dovrà arrendersi al fatto che il non-profit è una risorsa che inevitabilmente fa e farà da volano agli altri due settori».

L’immagine di copertina è dell’UNICEF ed è stata scattata  da Shafiqul Alam Kiron

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