SALUTE MENTALE: L’AUTONOMIA È UN ORIZZONTE POSSIBILE

Investimenti pubblici insufficienti, scarsa comunicazione tra i servizi e si rischia di lavorare alla riduzione del danno più che alla fuoriuscita dai servizi. I centri diurni sono un’opportunità, a cui spesso si arriva tardi

Sono 61 in tutto il Lazio e 25 solo a Roma. Nel nostro Paese i Centri diurni che prendono in caricopersone con problemi di malattia mentale per sostenerle oltre la cura, con la riabilitazione e l’integrazione sociale, sono stati e sono una risorsa determinante nell’ambito del lavoro dei servizi di salute mentale del dopo riforma. Uno snodo cruciale di quel percorso di deistituzionalizzazione che ha rivoluzionato la psichiatria e che, fra luci e ombre, ha contributo a migliorare la qualità della vita dei pazienti. Fino alla fine degli anni Novanta erano circa 500 in tutta Italia (12mila pazienti in carico) poi hanno continuato a crescere, anche se in modo meno rilevante, dimostrando un ruolo centrale nella risposta ai bisogni delle famiglie che devono gestire una o più persone con problemi di questo tipo. E che prima avevano riscontri parziali e frammentati.
Oggi i Centri diurni sono una realtà consolidata che lavora a pieno ritmo. Secondo un’indagine dell’Asp Lazio, nel solo 2008 in questa regione sono state oggetto di trattamenti quasi 1.812 persone per un totale di 171.778 prestazioni che vanno dall’aspetto terapeutico alle diversificate attività riabilitative interne ed esterne; una ricerca Isfol riferita al 2005 totalizza in 125 gli inserimenti lavorativi, che però vengono effettuati solo da un terzo dei centri laziali.

Nei centri diurni si progetta l’autonomia


Del presente e soprattutto del futuro dei Centri diurni in psichiatria si è discusso nel convegno nazionale che si è tenuto a Frosinone dal 16 al 18 Ottobre. Per ragionare sui nodi critici e su come affrontarli, facendo interagire le relazioni con l’esperienza di oltre 120 operatori provenienti da tutta Italia. I risultati dei lavori di gruppo saranno presto pubblicati sul sito dell’Asl di Frosinone, il cui Dipartimento di salute mentale ha organizzato l’incontro, insieme alla Regione Lazio e al Coordinamento dei Centri diurni del Lazio. L’intento, come spiega Patrizia Monti, psicologa, responsabile del Centro diurno Orizzonti Aperti di Frosinone, è «arrivare al Congresso nazionale del 2015 con proposte specifiche a tutto campo per migliorare un servizio che si è dimostrato determinante», a dispetto delle difficoltà e delle cose da cambiare.
«Il nostro è un lavoro delicato che punta a sviluppare più autonomia possibile nelle persone che abbiamo in carico e che spesso hanno patologie importanti». Un lavoro che si muove, per tutti, sulla linea di progetti individuali, costruiti attorno alla persona e alla natura del suo disagio, per renderla quanto più possibile autonoma e migliorare la qualità della sua vita. Il “paziente” arriva dal Centro di salute mentale con un quadro di riferimento – diagnosi, terapia farmacologica, ipotesi di riabilitazione – dopodiché gli operatori del Centro Diurno si prendono un tempo per incontrare la famiglia, per ragionare insieme sulle aspettative di riabilitazione e per offrire supporto alla rete stretta di amici e parenti che gli ruota intorno. Stessa cosa con l’utente, considerato soggetto attivo della propria riabilitazione, e con le sue aspettative. Da qui scaturisce un progetto che, a seconda dei casi specifici, contempla diverse attività: dal sostegno alla gestione del denaro, di sé e del proprio corpo, fino all’orientamento nel tempo e nello spazio e allo sviluppo di competenze.
Sicché, quasi sempre con il supporto di associazioni di volontariato e del privato sociale, i centri danno vita ad attività diverse: dalla coltivazione di orti all’alfabetizzazione all’uso dei computer, dallo sport come nuoto e calcio fino ai laboratori di cucina. Racconta Monti che Orizzonti Aperti (21 persone incarico) promuove, fra l’altro, un laboratorio di computer e che alcuni degli utenti hanno supportato la segreteria del convegno operando sul database. Obiettivo: proiettare all’esterno, integrare, interagire con il territorio. Aprire, uscire fuori dalla semiresidenzialità. E, come capita al Centro diurno di Scampia a Napoli (60 utenti in carico quotidianamente), gestito da Carla Mangione, psichiatra, mettere in pratica esperienze di cittadinanza attiva. In un quartiere difficile, con utenti dalla patologie importanti e dalle reti familiari fragili e loro stesse problematiche. Spiega Mangione come si sviluppa l’idea dell’orto del Centro: «Rosa Orfitelli, una omeopata volontaria di Legambiente, con cui collaboriamo da anni, ha scritto un delizioso libricino in cui per ogni mese dell’anno è riportata una piccola storia, viene descritta la verdura tipica con le relative proprietà omeopatiche e tramandata una ricetta della tradizione napoletana. Rosa decide di donare al nostro orto i proventi della vendita. A quel punto il Csv di Napoli propone a Legambiente un finanziamento per sviluppare con i nostri utenti le tematiche del libro. Dunque, di mese in mese noi produciamo la verdura di quel periodo – presto anche in un altro appezzamento di terreno fuori dal Centro – e ogni mese, in una saletta, c’è un incontro pubblico, molto partecipato, con Rosa a parlare delle proprietà omeopatiche dell’ortaggio e con un pranzo conclusivo, tutti insieme. Protagonista l’ortaggio stesso coltivato nell’orto».

Spesso ai Centri si arriva troppo tardi


Di tutti: Monti, Mangione, colpisce la passione, che per raggiungere gli obiettivi è un valore aggiunto. E che spiega la rivendicazione fiera dei successi. Ad Orizzonti Aperti, per esempio, c’è una signora che è riuscita in un lungo percorso di riabilitazione e che ora potrebbe diventare presidente dell’associazione di volontariato che riunisce gli utenti e i familiari i quali, a loro volta, in qualche caso gestiscono il front office della prima accoglienza. Spesso, però, i percorsi degli utenti con patologie più impegnative sono ben meno lineari e dopo molto lavoro arrivano ad ottenere – e nelle condizioni date non è poco – una buona gestione della malattia e il miglioramento della qualità di vita. Sottolinea Monti: «Uno dei problemi è che per avere più prospettive di riuscita noi dovremmo vedere le persone all’esordio del malessere psichiatrico. Invece le vediamo anche dopo dieci anni, dopo che le famiglie hanno magari tentato altri percorsi anche per la fatica di vedere così socialmente conclamata la malattia». Non solo: «Spesso nelle situazioni gravi, la permanenza nei Centri si allunga, diventa a lungo termine» come forma di “riduzione del danno” rispetto a una fuoriuscita senza rete. Poi c’è «la necessità di migliorare la comunicazione fra i servizi che si occupano dei casi». E «il pensiero: dobbiamo elaborare e scrivere le buone prassi, procedure e i percorsi per fare meglio. Anche se forse basterebbe anche solo formalizzare ciò che non si deve assolutamente fare», sorride in chiusura.

Fabio Candidi, psicologo, responsabile del Centro diurno Asl RmA, coordinatore regionale dei Centri diurni del Lazio spiega: «Il miglioramento della qualità della vita delle persone che prendiamo in carico è un orizzonte piuttosto nitido e concretizzabile. L’autonomia totale è raggiungibile, ma molto impegnativa anche perché servono un insieme di cose la cui sinergia oggi deve essere necessariamente migliorata: una buona cura ambulatoriale si deve unire al supporto della comunità terapeutiche e delle case alloggio per sostenere una residenzialità autonoma dalla famiglia, e poi va ancora potenziato l’inserimento lavorativo». A questo si aggiunge la cronica mancanza di risorse: «I dati dell’Organizzazione mondiale della sanità 2010 ci dicono che l’Italia investe nella la salute mentale il 5 per cento della spesa sanitaria contro il 14 per cento dell’Inghilterra e l’11 di Germania e Francia. Ma sono comunque soglie massime, a volte nel nostro Paese la percentuale scende». Diretta conseguenza dello scarso investimento pubblico, il mancato turn over del personale: «Ci sono problemi legati al blocco delle assunzioni, oltre alla continua riduzione del personale nei Servizi. Un esempio? Nel 1995 nel mio servizio (80 utenti) eravamo 3 psicologi, 3 infermieri e un assistente sociale. Oggi siamo uno psicologo, 2 infermieri e un assistente sociale». Una cosa che peraltro fa “invecchiare” il personale dei servizi. E infine: «Devono essere sostenuti i reinserimenti lavoratovi, sia supportando le cooperative di tipo B, sia mettendo in pratica la legge 68 (Ndr, sulle quote nelle aziende e negli enti pubblici)». Anche nei suoi occhi c’è tanta passione.

SALUTE MENTALE: L’AUTONOMIA È UN ORIZZONTE POSSIBILE

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