U2: L’AMARA ATTUALITÀ DI THE JOSHUA TREE, TRENT’ANNI DOPO

Omaima, profuga siriana di 15 anni, appare sul maxi schermo dell'Olimpico per raccontare i suoi sogni. È il terzo atto dello show, dedicato al futuro. E il futuro sono le donne

Iniziamo dalla fine. Da quello che è il terzo atto del concerto di The Joshua Tree Tour 2017, quello che gli U2 hanno appena messo in scena a Roma il 15 e 16 luglio, allo Stadio Olimpico. Inizia con due occhi enormi, due perle nere spalancate e sparate verso il pubblico sul maxi schermo dietro la band. Sono quelli di Omaima, 15 anni, siriana, ripresa nel campo di Zaatari, in Giordania, dove vivono migliaia di profughi del suo paese.

the joshua tree
Il campo profughi di Zaatari in Giordania è il più grande del mondo dopo quello di Dadaab in Kenya. Ospita oltre 80 mila profughi in fuga dalla guerra in Siria. Foto: World Bank Photo Collection

Le viene chiesto cosa direbbe a uno stadio che la guarda. «Vorrei dire loro di realizzare le proprie aspirazioni. La mia è quella di diventare avvocato, difendere i diritti di ognuno di noi. Vorrei che tutti abbiano speranza, sogni da far diventare realtà. Non posso più tollerare altra tristezza». È un altro momento in cui, nella storia degli U2, la realtà entra prepotentemente in un rock’n’roll show. Sulle immagini di Omaima, e del campo di Zaatari, partono le note di Miss Sarajevo, una canzone scritta più di vent’anni fa, che parla del tentativo di vivere una vita normale durante la guerra (era quella in Bosnia). «C’è un tempo per correre al riparo, un tempo per baciare e dirlo in giro, un tempo per differenti colori e differenti nomi che non riesci a pronunciare».

Parole scritte in un altro tempo. Un’altra guerra. Ma i sogni di una ragazza, anche se in zone diverse del mondo, sono sempre gli stessi. Così come sono scritte in un altro tempo le parole di Emma Lazarus, nel suo sonetto The New Colossus, che Bono, nei concerti americani, ha citato spesso alla fine di Miss Sarajevo. “A me sol date le masse antiche e povere assetate di libertà. A me l’umil rifiuto di ogni lido, i reietti, vinti. A loro la luce accendo sulla porta d’oro”. Emma Lazarus, figlia di un mercante ebreo di New York, nacque nel 1849 e arrivò a New York nel 1881 insieme ad altri ebrei cacciati dalla Russia dopo l’assassinio dello Zar Alessandro II: vide un popolo di reietti ed esclusi, gente lacera e affamata. Chiamata a scrivere un testo in occasione della costruzione della Statua della Libertà, pensò alla sua esperienza, e a quella di un popolo spinto da sempre a vagare in cerca di libertà e sicurezza. Le sue parole sono ancora impresse alla base della statua.

LE DONNE SONO IL FUTUROIl terzo atto del concerto è quello dedicato al futuro. E per Bono e gli U2 il futuro sono le donne. «Come sapete lo spirito femminile è cruciale in tempi in cui l’egemonia del maschio è causa di continue violenze e disordini», ha dichiarato Bono. «Avevamo questa idea di fare un’ode alle donne, abbiamo pensato: cosa succederebbe se incontrassimo una ragazza in un campo di rifugiati, quelle donne che il Presidente Trump non vuole in America, nel paese che ci ha portato i versi di Emma Lazarus ai piedi della Statua della Libertà?». Così è nata l’idea di Omaima.

Ma l’ode alle donne continua nella canzone Ultra Violet (Light My Way), con una carrellata di donne che hanno cambiato la storia, dalle suffragette a Marie Curie, da Anna Frank a Patti Smith, da Angela Davis alle Pussy Riot, da Simone de Beauvoir ai volti delle italiane Rita Levi Montalcini, Emma Bonino e Giusy Nicolini, ex sindaco di Lampedusa. Icone che scorrono su una canzone in cui un uomo chiede alla sua amata di illuminargli la via di casa (Baby baby baby light my way). È un modo per dire che sono le donne che forse oggi possono indicarci la via da percorrere.

Ultra Violet prende il nome dalle luci ultraviolette che filtravano dalle finestre delle case di Berlino Est, dove gli U2 registrarono nel 1990 il loro disco Achtung Baby: nelle case dell’Est costruite così affastellate l’una all’altra da non permettere al sole di penetrare erano l’unico modo di fare crescere dei fiori nella semioscurità. Una storia di amore e resilienza in cui una donna aiuta un uomo a tornare dopo che si è perso nella città della notte. Alla fine della canzone, sullo schermo appare la scritta Poverty Is Sexist, la povertà è sessista (è anche il nome di una campagna al femminile di cui Bono è un testimonial). Perché spesso sono le donne a pagare il prezzo di certe condizioni di vita.

TRENT’ANNI FA, COME OGGI. Se il terzo atto del concerto è quello che guarda al futuro, il secondo, la parte centrale dello show (dopo la prima dedicata ai successi pre Joshua Tree), è quello che guarda al passato. Ma perché gli U2 riportano sul palco un disco di trent’anni fa? Perché quel disco nacque in un momento ben preciso, l’era di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, tempi bui e contraddittori.

the Joshua Tree
The Edge, Larry Mullen Jr., Bono e Adam Clayton durante la tappa di Seattle del tour. Foto di Kevin Mazur

L’elezione di Donald Trump, la Brexit, le guerre e le ondate di razzismo sembrano riportarci indietro a quei tempi, a quel disco che era un poema di amore e odio per l’America. «Pensavo che il mondo stesse andando verso una direzione giusta», ha dichiarato Bono. «Poi ti giri, e di colpo ti accorgi che nulla di tutto questo è più vero». The Joshua Tree (che nel concerto viene suonato in sequenza), oggi è ancora attualissimo sia per i suoni, sia per i temi: Bullet The Blue Sky, che racconta i raid americani in Nicaragua a El Salvador, ricrea ancora oggi l’inferno sulla Terra di qualsiasi guerra, Mothers Of The Disappeared racconta il dolore delle madri per i figli scomparsi: è stata scritta pensando ai desaparecidos del Cile di Pinochet, ma potrebbero essere i figli di chiunque.  Red Hill Mining Town (riarrangiata con una band di ottoni che compare sullo schermo), dedicata trent’anni fa alle condizioni dei minatori nell’Inghilterra di Margaret Thatcher, è attuale ancora oggi, in un mondo di cui di lavoro si muore. O non si vive.

THE JOSHUA TREE, UN CERCHIO CHE SI CHIUDE. Miss Sarajevo e la Siria sono per gli U2 un cerchio che si chiude. Proprio con Sarajevo, e con la guerra in Bosnia, la band di Dublino iniziò, nel 1992, quel cortocircuito tra arte e realtà. Nel corso dei concerti del tour Zooropa, gli U2 cominciarono a collegarsi con Sarajevo, dove un inviato di guerra, Bill Carter, raccontava la situazione. Carter cominciò anche a far parlare i bosniaci. Con esiti anche dolorosi, con alcuni che accusavano il pubblico di “star lì seduto mentre noi veniamo massacrati”. O con una donna che disse «anche a noi piacerebbe sentire la musica, però sentiamo solo le urla dei feriti».

Un pugno nello stomaco, dopo il quale, anche per la band, era sempre più difficile tornare a cantare, a fare del rock’n’roll. Ma era stato squarciato un velo, e il mondo aveva cominciato a vedere cosa stava accadendo in un luogo dimenticato. Così, come due anni fa, a Torino, nella prima delle date europee dell’Innocence And Experience Tour, comparve a sorpresa un vecchio pezzo, October, che parla di alberi spogli e regni che cadono. Sullo schermo le immagini scioccanti di Kobane, ripresa dall’alto, da un drone. Una città completamente devastata, un set di cartapesta, sventrato, ucciso.

Bullet The Blue Sky, era stata utilizzata per raccontare gli sbarchi e le morti in mare. Non c’è niente da fare. Certe canzoni continuano ad essere attuali. Cambiano i luoghi, ma non le tragedie, Cambiano i modi, ma non il risultato. Per quanto tempo dovremo cantare ancora questa canzone? (How long must we sing this song?)” cantano gli U2 in Sunday Bloody Sunday, il pezzo (dedicato alla tragica Blody Sunday del 1972 a Derry, in Irlanda del Nord) che apre i concerti di questo tour. Certe canzoni le stiamo cantando ancora. E da troppo tempo. L’augurio è che Omaima, e tante altre ragazze come lei, trovino la loro canzone, e continuino a cantarla.

In copertina: “Opening Night, Vancouver, BC Place”. Foto di Danny North

 

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