LA TUTELA DELLA SALUTE IN CARCERE RIGUARDA ANCHE GLI AGENTI. TROPPI I SUICIDI

Molto stress, niente sportelli e servizi di sostegno e nel 2019 già sette agenti si sono suicidati. La proposta dell'Associazione Conosci

Negli ultimi vent’anni si sono suicidati ben 140 agenti penitenziari: nel 2019 i casi sono già sette. Se si contano anche quelli dei detenuti, in carcere il numero dei suicidi è di oltre 18 volte più alto rispetto a quanto avviene tra la popolazione libera, dicono i dati di Ristretti Orizzonti. Anche questo è un sintomo, e molto evidente, delle criticità del sistema penitenziario e del fatto che la tutela della salute in carcere è un problema aperto, soprattutto oggi, in questo clima giustizialista che fa dimenticare la vera funzione degli istituti di pena e detenzione: rieducare e riabilitare alla vita nella società.

Da dove nasce e che cosa significa l’alto numero dei suicidi tra gli agenti penitenziari? Ne abbiamo parlato con Sandro Libianchi, medico, dirigente del carcere di Rebibbia e rappresentante dell’associazione CoNOSCI (Coordinamento Nazionale per la Salute nelle Carceri Italiane) che si occupa di ricerca, metodologia e formazione sul tema della tutela della salute in carcere.

«Il tema della tutela della salute in carcere», spiega Libianchi, «viene  normalmente pensato solo in riferimento ai detenuti. In realtà nessuno pensa che, essendo un contesto confinato, chiuso, tutti hanno titolo a tutelare la salute dell’altro. Parlo di noi, ma anche degli agenti di Polizia Penitenziaria e degli altri detenuti. Questo contesto quindi va sempre considerato nelle sue componenti essenziali, che sono gli operatori, ma anche la metodologia: come funziona il sistema è determinante per avere un esito positivo. È quindi importante considerare tutte le componenti di questa “scatola”, inclusi i metodi, che raramente sono considerati come essenziali. Con una metodologia minimamente rigorosa,  possiamo infatti immaginare di creare condizioni di ripetibilità, e quindi di avere degli standard di riferimento. In carcere, riuscire a creare dei sistemi che funzionino è del tutto casuale. Casuale ed assolutamente opinabile. Questo è uno dei grandi problemi del lavoro in carcere e, laddove non ci sono linee operative precise da seguire, aumenta lo stress, che è l’anticamera dell’autolesionismo. Non parlo solo dei detenuti e degli agenti, ma parlo anche del resto del personale, anche sanitario.»

Quali figure sono impegnate durante la fase detentiva?
«A Rebibbia ci sono circa 200 figure sanitarie e circa 1500 agenti di Polizia penitenziaria. Su di loro grava il peso della gestione e non esiste ancora un sistema di rilevazione del benessere o del malessere da parte dell’amministrazione a tutela dell’agente.»

Quali sono le patologie più riscontrate in questo contesto?
«Sicuramente una delle situazioni più frequenti è la sindrome da burn-out. Si dice che una persona è in fase di burn-out quando, in una situazione professionale, si trova in uno stato di profondo disagio, di stress cronico e persistente ed il contesto in questione è sicuramente motivo di profondo stress psicofisico, talora aggravata da situazioni di mobbing.»

È difficile far emergere il disagio?
«Si, anche perché le amministrazioni di appartenenza, di fronte ad un disagio psichico anche lieve provvedono immediatamente a ritirare l’arma in dotazione ed ad attribuire un periodo di congedo per malattia, che può essere anche molto lungo. Questi provvedimenti, ben noti al personale, sono una causa che spesso  spinge a nascondere il proprio malessere e che può aumentare lo stato di disagio personale, in conseguenza della perdita dell’incarico ricoperto e del proprio ruolo professionale.
Un altro indicatore importante di una condizione di disagio del personale è rappresentato dai casi di abuso alcolico o consumo di sostanze stupefacenti. Talora si nota anche una tendenza al conflitto intrafamiliare, probabilmente in maniera più accentuata che rispetto alla popolazione generale.

Che tipo di servizi ha a disposizione un agente?
«Non sono presenti centri specialistici per il sostegno a questo tipo di problema e l’unica soluzione è rivolgersi al servizio pubblico attraverso la ASL ed i suoi Centri per la Salute Mentale (CSM). Diversi anni addietro, a Roma è stata fatta una sperimentazione presso un centro ospedaliero, con un centro di ascolto anche con numero verde e dedicato alla Polizia penitenziaria. Purtroppo, come tante sperimentazioni, una volta finite le risorse economiche il progetto si è interrotto e non conosciamo gli esiti di quella sperimentazione. Di certo il recarsi presso un centro di psichiatria con una richiesta di aiuto non rappresenta un passo facile da compiere, anche per il successivo giudizio che possono dare gli altri e le persone con cui si lavora. Questo fattore diminuisce senz’altro la possibilità di accesso e sostegno.»

Quello degli agenti è un mondo soprattutto maschile. Questo conta?
«Su 40.000 agenti in totale, solo il 7-8% sono donne (3.000 donne agenti). La legge, infatti, prevede che nei concorsi l’80% dei posti siano riservati agli uomini e il 20% alle donne, perché i detenuti sono in gran parte uomini. Sarebbe utile invece un sistema leggermente più paritario, per distendere l’atmosfera  e permettere che ci possa essere maggiore interazione fra i generi.»

Nei casi in cui le figure del volontario o dell’educatore sono meno presenti, peggiora la vivibilità all’interno del carcere?
«Si, perché sono figure che allentano la tensione ambientale.»

Qual è la proposta dell’associazione CoNOSCI?
«Vogliamo avviare una ricerca specifica sul benessere della polizia penitenziaria, su una ristretta zona d’Italia, con un non elevato numero di agenti, con i quali valutare lo stato di benessere e creare un sistema di risposta all’eventuale disagio dell’operatore.
Questo lavoro, in associazione con la Federazione Italiana Diritti Umani (FIDU) inizierà a ottobre, e attraverso un questionario calibrato sarà valutato quanto e come un certo gruppo di polizia, in servizio, manifesti segni di disagio e come rispondere ad esso.
Questa sperimentazione, al fine di ottenere un’azione di prevenzione sistemica per la tutela della salute in carcere, sull’intera categoria, va estesa anche ad altre zone d’Italia, perché diventi un modello esportabile in tutte le realtà lavorative.»

Se avete correzioni o suggerimenti da proporci, scrivete a comunicazionecsv@csvlazio.org

 

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