FUGA PER LA LIBERTÀ: STORIA DI UN CAMPO PROFUGHI A LATINA

Domani a Latina, nell’ambito delle Giornate delle Migrazioni, verrà proiettato il film di Emanuela Gasbarroni. Nelle sue parole il bisogno di ricordare, per capire cosa accade oggi

Solo chi ha vissuto a Latina sa che, dal 1957, anno dell’invasione dell’Ungheria, al 1989, anno della caduta del Muro di Berlino, è stato attivo un campo di accoglienza per rifugiati. È una di quelle storie nascoste, dimenticate troppo presto. Ce lo racconta il bel film Fuga per la libertà – Storia di un campo profughi di Emanuela Gasbarroni, che verrà proiettato a Latina nel corso delle Giornate delle Migrazioni (domani, 20 ottobre, alle 10, alla Sala conferenze del Polo Pontino de “La sapienza”, e in serata, alle 21, al cinema Oxer) nel corso di una tre giorni di eventi dedicati al tema.

Dal 1957, pochi mesi dopo l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica, il campo ha cominciato ad accogliere persone che fuggivano dai paesi dell’est europeo. Negli anni la struttura di Latina ha accolto più di 100mila rifugiati. Ungheresi, cecoslovacchi, romeni, ma anche cubani. Un fiume umano di donne, bambini e uomini che arrivavano senza niente. Restavano alcuni mesi. Per poi ripartire verso altri luoghi: Australia, Canada, Stati Uniti. Il campo era stato allestito in una ex caserma ed era gestito dal Ministero degli Interni. Tra gli “ospiti” del centro c’è stato anche Andrej Tarkovskij: aveva già vinto festival prestigiosi come Cannes e Venezia, ma in Unione Sovietica non lo facevano lavorare.

fuga per la libertà
La mensa del campo in una vecchia fotografia (Wikimedia Commons)

In Italia girò Nostalghia, e quando chiese asilo politico, fu un caso che ebbe un clamore internazionale. Emanuela Gasbarroni si è chiesta dove fossero finite alcune di queste persone, è andata a cercarle, ha ricostruito le loro storie. Il suo film è un mosaico di storie, ma è anche la Storia, quella degli ultimi sessant’anni d’Europa. Ed è qualcosa di estremamente attuale: è una sensazione strana assistere alle vicende di un campo profughi così vicino a noi, oggi che di campi ne vediamo tanti, ma ci sembrano qualcosa di lontano. E che non ci riguarda.

Fuga per la Libertà nasce da un’esperienza personale..
Io sono di Latina. Tutti quelli della mia generazione si ricordano benissimo del campo, era una realtà importantissima. Noi non potevamo entrare nel campo, ma loro potevano uscire. I miei genitori, nel ’64, conoscono tre cubani e li invitano a passare il Natale con noi: erano scappati in modo rocambolesco, nascosti nella stiva di una nave diretta in Russia, si sono gettati e hanno nuotato verso il porto di Genova.

Nel ’67 abbiamo conosciuto una coppia di cecoslovacchi, di vent’anni, che si sono sposati al campo e venivano spesso da noi: ci hanno scritto per quarant’anni e hanno chiamato la figlia Romana in onore di Roma. Queste storie di accoglienza ai tempi venivano osteggiate da parenti e conoscenti. Non era una cosa ben vista. Ma mia madre diceva: per me il senso del Natale è questo. Ricorda ancora lo spezzatino con le patate avevamo poche possibilità, ma l’importante era stare insieme. Oggi che sono una giornalista e faccio produzione e regia di documentari volevo raccontare una storia della mia città.

Come ha lavorato al film?
Ho cominciato a lavorare all’Archivio di Stato. E ho trovato un mondo da raccontare. Parliamo di un lasso di tempo che va dal ‘57 all’89, di centomila persone. Il dato certo, al 1979, è di settantamila persone. Negli anni seguenti, poi, i polacchi arrivarono in massa perché avevano un permesso per venire in Vaticano da Papa Wojtyla e non tornavano: da una capienza di 770 persone il campo è arrivato a 5mila.

L’onda lunga di Solidarnosc aveva cambiato il vento nei paesi dell’est e più ci avvicinavamo alla caduta del Muro, più tutto accadeva velocemente. I profughi restavano tra i 4 mesi e l’anno: i più qualificati trovavano più facilmente lavoro e quindi venivano accolti dai paesi.

Come ha scelto le storie da raccontare in Fuga per la Libertà?
Sono tre storie che hanno cercato me. Mihaj è un ingegnere romeno che è scappato dal suo paese e anche dal campo: doveva andare in America, ma non voleva mettere un oceano tra lui e la famiglia, cosi è andato a Parigi facendo il percorso dei contrabbandieri italiani. Ha scritto un libro, con un capitolo dedicato a Latina. E ha scritto una lettera al Comune ricordando come ci fosse una targa che ricorda gli ungheresi, e non gli altri. Il Comune di Latina gli ha detto che stavo facendo un film.

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La lapide commemorativa che, a Latina, ricorda i profughi ungheresi (Wikimedia Commons)

Lui scrive del mio film su un blog che viene letto da Aurelia, che vive in Canada dove insegna linguistica, identità, migrazioni ed esilio. La terza storia è quella di Alex: a trent’anni dalla sua fuga riporta i suoi figli a fare lo stesso percorso, passando da Sesana a Trieste. È una storia comica e piena di sliding doors: doveva andare in Austria, perché sapeva il tedesco, ma alla stazione di Belgrado era pieno di poliziotti che guardavano minacciosi, e il primo treno andava verso il confine italiano. È divertente quando racconta l’incontro con la sua prima mozzarella.

Oltre al film nascerà un libro, un sito web dove ognuno potrà caricare la sua storia e i suoi documenti. Sarà una piccola Ellis Island locale.

Il film non è solo queste storie, ma molto altro..
Mentre narravo mi sono resa conto che non volevo parlare solo del campo. Ma di cosa significa tornare dopo trent’anni. E del concetto di libertà. Possiamo immaginare la guerra, la fame, ma non cosa vuol dire la mancanza di libertà. E soprattutto il fatto che quando scappi e vai in un altro paese non è finita, ma è appena l’inizio di un percorso che durerà tutta la vita. Le persone in esilio sono scisse, completamente ripiegate sul passato, portano dentro di sé un grande dolore.

È anche una storia dell’Europa, e del mondo, degli ultimi sessant’anni…
Intorno a queste storie c’è tutto quello che succedeva nella Macrostoria. L’invasione dell’Ungheria, 4mila carrarmati, 200mila soldati arrivano dall’Unione Sovietica, 250mila ungheresi lasciano il paese.

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Una vecchia foto ritrae alcuni bambini nel campo profughi (Wikimedia Commons)

Il CIME, Comitato Intergovernativo delle Migrazioni Europee, decide di accoglierli. Chi pianifica tutto è Roberto Rossi Longhi, che a Latina trova una struttura dove fino al 1953 c’erano i profughi istriani. Morirà giovanissimo, a 33 anni. Oggi ricorrono i sessant’anni del giorno in cui gli dedicarono il campo, e in questa occasione abbiamo organizzato a Latina tre giorni di eventi, con proiezioni, mostre e convegni  insieme agli studenti del terzo anno del liceo scientifico.

Fuga per la Libertà ha una sua attualità, vederlo e confrontarlo con quello che accade oggi ha un senso particolare…
È una riflessione sull’oggi. Il problema del campo profughi era che la percezione della città verso il campo era di paura. I profughi vivevano in una situazione non facile, c’’erano ubriacature, piccoli furti. E la città non veniva in contatto con gli altri, brave famiglie, intellettuali. Le istituzioni non hanno mai fatto nulla, una mostra, un concerto, un pranzo, un incontro. I contatti erano sporadici. Dovevi superare un sacco di paure per entrare in contatto con il campo. Ed è quello che accade oggi. La non conoscenza porta alla paura. È importante fare iniziative come queste. Provare che non siamo invasi. Spiegare cosa sono i respingimenti. Non fermarsi alle parole.

 

In copertina l’entrata del campo profughi di Latina. Immagine Wikimedia Commons.

FUGA PER LA LIBERTÀ: STORIA DI UN CAMPO PROFUGHI A LATINA

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