
I 30 ANNI DI SREBRENICA: LA GUERRA NON CI INSEGNA NIENTE
All’Euro Balkan Film Festival con Miljenko Jergović e con il documentario di Ado Hasanović, a trent’anni dal genocidio di Srebrenica. Hasanović: «Mio padre mi ha insegnato a fare amicizia con tutti. Anche con i miei amici serbi. Noi non abbiamo fatto la guerra e dobbiamo costruire il futuro. È questo quello che mi hanno lasciato la guerra e mio padre»
10 Novembre 2025
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Genocidio. Quello che è avvenuto 30 anni fa in Bosnia Erzegovina è stato chiamato decisamente in questo modo. È stato il primo genocidio avvenuto in Europa dopo la Prima Guerra Mondiale. Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario della strage di Srebrenica, avvenuta nel luglio 1995. Cosa ci ha insegnato quel conflitto tragico, se davvero una guerra può insegnare qualcosa? «Penso che una tragedia così non serva a insegnarci niente di buono. Traumatizza tutti, traumatizza le persone, intere comunità, soprattutto quelle della Bosnia Erzegovina» ha raccontato all’Euro Balkan Film Festival lo scrittore Miljenko Jergović. «Ha procurato odio, un allontanamento tra le persone. Per me è stato importante preservare l’identità di questo mondo bosniaco. Le vittime di tutte le tre etnie sono anche le mie vittime, i carnefici sono anche i miei carnefici. Io non mi posso distanziare né dagli uni né dagli altri». La guerra non può insegnare nulla. E noi uomini comunque non impariamo nulla dai nostri errori. E oggi, in altre parti del mondo, sta succedendo di nuovo. All’Euro Balkan Film Festival un incontro con Miljenko Jergović, autore dei libri Le Marlboro di Sarajevo, del 1995, e Sarajevo: una mappa della città, del 2024, e la proiezione del toccante documentario di Ado Hasanović I diari di mio padre, omaggio a Srebrenica e alle 8.372 vittime del genocidio.

Qualcosa per ricordare, che fosse una carta d’identità
Le Marlboro di Sarajevo di Miljenko Jergović è uno dei libri simbolo della guerra in Bosnia, scritto nel 1995, quando la tragicità della Storia era ancora in atto. «La stesura di questo libro è stata all’inizio della guerra, dell’assedio di Sarajevo, quando stava per sparire tutto il mio mondo», ha raccontato lo scrittore, che ha ricevuto il premio assegnato dall’Associazione Occhio Blu – Anna Cenerini Bova. «Non ero sicuro di sopravvivere alla tragedia. Ma se fossi sopravvissuto avrei voluto qualcosa di materiale per ricordare, qualcosa che fosse la mia carta d’identità». Dopo aver contribuito a formare la memoria di quegli anni, Jergović oggi ha chiuso il cerchio con Sarajevo: una mappa della città. «È un libro completamente diverso, così come il suo approccio letterario» ci ha raccontato. «Si tratta di una mappa della città, parlo di strade, piazze, degli edifici. E dei tempi diversi di Sarajevo che arrivano con l’Impero Asburgico, l’Austria Ungheria, quando c’erano dei progetti urbanistici e la città era in piano sviluppo. Ho scritto un libro di finzione. Non andrebbe preso come un libro attendibile dal punto di vista urbanistico. Se dovessero seguirlo, i turisti si perderebbero». «Io preferisco i ricordi individuali rispetto a quelli collettivi» ha aggiunto. «Sono quelli più autentici: anche se non sono esatti, non danno mai spazio all’ideologia. C’è anche un’ideologia e dei luoghi e Sarajevo è piena di questi luoghi della memoria».
I diari di mio padre
I diari di mio padre di Ado Hasanović è la storia di una guerra, di un genocidio, e allo stesso tempo quella di un figlio che ritrova suo padre attraverso i suoi diari e le immagini dei video amatoriali che questi aveva realizzato con un collettivo di videomaker per documentare la guerra. «Nel 2011, mentre entravo alla scuola di cinema di Sarajevo, mia madre mi ha consegnato questi diari», ci ha raccontato Ado Hasanović. «Non li ho letti subito. Mi vergognavo, mi serviva tempo per capire. Leggevo e piangevo. Il mio insegnante di cinema mi diceva: “fino a che non fai un film sulla guerra, su tuo padre, non sarai un regista”. Il tempo mi ha aiutato a fare i conti con il mio passato. Ma è un fatto che per anni ho dormito con la luce accesa. L’unica cosa che mi mancava durante la guerra era l’elettricità per giocare con i miei fratelli durante la notte. Per otto anni sono andato a dormire con i miei pensieri. Quello che è mancato in Bosnia dopo la guerra è stato il supporto psicologico. Avevo gli incubi che la guerra iniziasse di nuovo. Dopo che ho realizzato il film non ho più bisogno della luce accesa per dormire».
Uccidere come bere un caffè
Quei diari raccontano i fatti della guerra, ma anche i sentimenti, le sensazioni intime di chi li ha vissuti. Momenti durissimi – i primi morti della guerra e gli sguardi attoniti e pietrificati di chi se ne prendeva cura – si alternano con momenti più giocosi, come le ricostruzioni di scene di guerra. «Ricreavano filmati di finzione» ci racconta l’autore. «Ci sono stati momenti comici, ironia, giochi e scherzi. È stato importante mettere alcuni elementi di finzione. Non potevo metterli tutti perché siamo in un contesto storico. Ma c’erano dei momenti di noia e loro li affrontavano così». Mentre scorrono le immagini di quei filmati d’epoca viviamo l’arrivo dell’esercito serbo, i carri armati, le case bruciate. Vediamo, in materiale di repertorio, le inquietanti uccisioni da parte delle bande paramilitari serbe. «Sono materiali usati dal tribunale dell’Aja: sono usciti nel 2004, una signora ha un’associazione che li custodisce a Belgrado» ci spiega il regista. «È stato importante inserirli nel film, per far vedere come loro hanno giocato con la macchina da presa. Prima di uccidere si chiedevano se la macchina da presa fosse scarica e se dovessero ricaricare la batteria. Mi ha fatto molto male quando ho visto quella scena. È importante mostrare queste cose mostruose, un gruppo di persone che si divertivano, ridevano, uccidevano come se andassero a prendere un caffè». E anche queste sono scene che, tragicamente, si stanno ripetendo oggi.

La dialettica tra passato e presente
Il film vive della dialettica tra passato e presente, tra le riprese del 1993 e quelle dei giorni nostri, tra quelle del padre e quelle del figlio. È un dialogo tra loro. Quelle immagini girate negli anni più recenti devono contestualizzare, spiegare ex post quello che è successo. Ma quelle immagini di oggi sono anche sollievo, vogliono dire che la guerra è finita, che c’è chi è ancora vivo. Che la vita è tornata a scorrere normale, o quasi. E ci chiediamo: sarà possibile, tra qualche anno, vedere immagini come queste in altre zone di guerra?
Rubare la realtà
E ci viene da dire: quanto è bello quando, in scena, non accade niente. Quando c’è solo una famiglia che parla. Tutto, nel materiale girato da Hasanovic, è reale, naturale. «Mi hanno influenzato i materiali di mio padre» ci ha spiegato. «Volevo rubare la realtà come loro durante la guerra rubavano la realtà degli altri. Non ho mai detto a loro “sto facendo un film, sto girando una scena, vestitevi in un certo modo”. Anche quando, parlando con mio zio, dopo la morte di mio papà, gli ho chiesto cosa avesse da dire, ha detto tutto quello che doveva ed è tornato al suo mondo».
Mio padre si fidava
Alla fine, però, niente può essere davvero normale, una guerra non finisce mai del tutto. «Tutta la generazione della guerra sta morendo di ictus, o ha attacchi di cuore», racconta il padre di Ado. Lui stesso sarebbe venuto a mancare nel 2020. «Mio padre è morto a 58 anni per un attacco di cuore» racconta commosso l’autore. «È stato difficile da accettare. Ho sofferto tanto. Non passa mai il dolore. Mi diceva: “io morirò e tu non farai il film su di me”. Era un modo di dirmi che voleva che facessi quel film. Nonostante rifiutasse di essere ripreso, si fidava».
I bambini non dovrebbero essere mai colpevoli
C’è una scena in cui a Srebrenica riapre la scuola: lì non c’è quasi niente, ma i bambini sono tornati. Viene chiesto loro se andrebbero a scuola con dei bambini serbi e rispondono di no. Ma gli viene detto che non deve essere così. «I bambini della vostra età non dovrebbero essere colpevoli. Solo i vostri padri lo sono». «Mio padre mi ha insegnato a fare amicizia con tutti. Anche con i miei amici serbi» racconta il regista. «Noi non abbiamo fatto la guerra e dobbiamo costruire il futuro. È questo quello che mi hanno lasciato la guerra e mio padre».






