DA KARAWAN FEST E TORPIGNATTARA LO SGUARDO È SUL MONDO

Dall’edizione 2025 di Karawan Fest, appena conclusa a Torpignattara, tre storie di donne per continuare a tenere gli occhi aperti sul mondo, tra Libano, India e Kurdistan

di Maurizio Ermisino

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Karawan Fest ogni volta apre una finestra. Guardi attraverso quel grande schermo messo lì, tra gli alberi e le arcate degli acquedotti, e il tuo sguardo è sul mondo. Su Paesi che conosciamo poco. Dall’ultima edizione del Festival tre storie di donne e tre Paesi come il Libano, l’India e il Kurdistan, seppur filtrato attraverso gli occhi di chi oggi vive in Germania. Sono le storie di Arzé di Mira Shaib (Libano / Egitto / Arabia Saudita, 2024, 93′), di Bad Girl di Varsha Bharath (India, 2025, 115′), che ha vinto il premio del pubblico, e di Winners (Sieger Sein) di Soleen Yusef (Germania, 2024, 119′).

Arzé: Beirut, una città di differenze in cui sono tutti uguali

Arzé è il titolo del film di Mira Shaib, ed è anche il nome della protagonista, una madre single in difficoltà nella Beirut di oggi. Quando al figlio adolescente Kinan rubano il motorino che il ragazzo usa per consegnare ai clienti le torte fatte in casa dalla madre, i due iniziano una frustrante ricerca dello scooter per tutta la città. Arzé è ispirato a Ladri di biciclette, un film che ha una storia che in qualche modo tende sempre a ritornare. Negli anni Quaranta, in Italia, la bicicletta era un mezzo di emancipazione, uno strumento fondamentale per andare a lavorare. Anche nel Libano di oggi uno scooter è importantissimo. Ma Arzé è anche L’Odissea, un viaggio senza fine in una città bellissima ma anche caotica e tentacolare, dalle mille anime: armeni, sunniti, sciiti, maroniti. «Ho vissuto tutta la mia vita a Beirut e l’ho lasciata quando avevo 27 anni: con lei ho avuto un rapporto di amore e odio. Sono un po’ come Kinan: ho sempre pensato che andarmene dalla città mi avrebbe portato a un futuro migliore» ci ha spiegato la regista. «Beirut è una città caotica e interessante, dove ci sono molte differenze: ma in queste differenze siamo tutti uguali». «L’ispirazione del film è Ladri di biciclette, il Neorealismo» continua. «Ci siamo ispirati a quel tipo di cinema per rappresentare la città per com’è e i personaggi delle varie confessioni religiose: gli attori fanno davvero parte di quelle comunità».

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Mira Shaib: «In Libano, e a Beirut, ci sono 18 diverse comunità religiose. Con Arzè volevo dire che, nonostante le divisioni, siamo tutti uguali. Dimentichiamoci qual è la nostra confessione, e cerchiamo di concentrarci sui problemi comuni»

Mira Shaib: stiamo dalla parte dei palestinesi

Il gioco di Arzé è quello di adattarsi. Vestirsi, indossare i simboli di una comunità per sembrare parte di quel mondo. Indossare di volta in volta un velo, una croce, un altro simbolo. Il film sembra dirci che tante anime, tante culture, tante religioni possono convivere. È così? «In Libano, e a Beirut, ci sono 18 diverse comunità religiose, che hanno avuto diversi problemi, inclusa una guerra civile» ci ha risposto Mira Shaib. «Non posso dire che viviamo in perfetta armonia. Tuttavia dopo la guerra civile le cose sono migliorate. Con questo film volevo dire che, nonostante le divisioni, siamo tutti uguali. Parliamo la stessa lingua, mangiamo gli stessi piatti, respiriamo la stessa aria. E, soprattutto, abbiamo gli stessi problemi. Dimentichiamoci qual è la nostra confessione, e cerchiamo di concentrarci sui problemi comuni. Ho provato a dire queste cose attraverso la commedia, che è un po’ il nostro spirito. Prendere le cose sul ridere ci aiuta ad andare avanti». A un certo punto del film si nomina il campo dei profughi palestinesi. Il Libano da sempre ha un legame forte con la popolazione palestinese. Allora abbiamo chiesto a Mira Shaib cosa provi in questo momento. «È inevitabile provare dei sentimenti molto intensi per quello che sta accadendo in Palestina» ci ha risposto. «Quello che sta accadendo ci tocca da vicino anche nel momento in cui parliamo. Le bombe israeliane non hanno mai smesso di essere sganciate nel sud del Libano, anche se le notizie di questo non arrivano. Stare dalla parte dei palestinesi per noi è il minimo, lottare per loro e insieme a loro è il minimo, la nostra lotta è la stessa: non è una lotta per una causa, ma per l’umanità stessa, per le persone. Siamo dalla loro parte, li accogliamo nel nostro Paese, nella speranza che un giorno potranno riavere il loro».

Bad Girl: La famiglia, una gabbia soffocante

Bad Girl di Varsha Bharath è un grido di libertà. Quello di una regista che vuole trovare la propria strada, raccontare storie al femminile, perché il cinema indiano non lo fa. E quella di una ragazza che decide di rompere gli schemi. In tre atti, dal liceo all’università fino all’ingresso nel mondo degli adulti, Ramya continua a sognare di trovare il ragazzo perfetto, ma i suoi tentativi sono ostacolati dai costumi sociali, dai genitori severi, dai sentimenti non corrisposti e dal caos sfrenato della sua mente. Bad Girl vive su un montaggio frenetico e, in tutta la prima parte, quella della protagonista quindicenne, costringe la storia in un’immagine in 4:3, quadrata, come quella delle vecchie televisioni, che serve a schiacciare il personaggio ancora di più di quello che sta facendo la sua vita. «Il formato in 4:3 l’ho scelto per dare l’idea di una gabbia soffocante, dalla quale non vede l’ora di scappare» ha spiegato la regista. «Ma crescendo questa gabbia rimane, è la prigione della sua stessa mente. Il film parla di questo: trovare la propria casa, la pace con se stessi, una casa nella propria testa». Ramya è una “cattiva ragazza”, perché va conto la tradizione dei matrimoni combinati che abbiamo visto in tanti film indiani. Musical senza esserlo, con le canzoni che diventano dei paesaggi-stato d’animo, Bad Girl racconta l’impossibilità di contrastare le convenzioni senza venire giudicati. Al centro c’è il conflitto tra Ramya e la madre. «C’è un elemento particolare nelle donne» rivela la regista. «Che è quello di essere continuamente in lotta tra loro. La misoginia è qualcosa di trasversale; le donne sono le prime ad essere contro se stesse».

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Varsha Bharath: «C’è un elemento particolare nelle donne, che è quello di essere continuamente in lotta tra loro. La misoginia è qualcosa di trasversale; le donne sono le prime ad essere contro se stesse»

Varsha Bharath: L’industria cinematografica indiana è maschile

Una storia simile, vista dal punto di vista femminile per il cinema indiano è una novità. «Volevo raccontare qualcosa in cui ci potessimo immedesimare come donne, perché è qualcosa che non esiste nell’industria nella quale lavoro» ha spiegato Varsha Bharath. «Amo molto la letteratura rosa, femminile. Mentre l’industria è fortemente dominata dalla mascolinità su film incentrati su eroi maschili. Volevo creare un genere che quasi non esiste». L’emancipazione di Ramya è allora anche quella della stessa regista. «L’industria cinematografica indiana è maschile» ci ha svelato. «Il rapporto oggi è di 2 donne ogni 100 uomini. Ma le cose stanno cambiando».

Winners: la democrazia non è un gioco

Winners (Sieger Sein) di Soleen Yusef racconta la storia di Mona, una ragazza curda di 11 anni fuggita dalla Siria con la sua famiglia. Ora vive a Berlino, dove frequenta una scuola popolata al 90 per cento da studenti di origine straniera. Mona non ha amici e parla a malapena il tedesco, ma conosce il linguaggio del calcio: è proprio grazie al pallone che troverà la sua rivincita. Mona viene dal Rojawa, in Siria, e di volta in volta con la mente vola là, ai momenti in cui giocava a pallone su una terra brulla con due porte che stavano in piedi per miracolo. A Berlino ha altri problemi: il bullismo, il pregiudizio, l’integrazione. Nel film si parla anche di Assad, il dittatore siriano, si parla di valori. «La democrazia non è un gioco, c’è chi muore per questo» le sentiamo dire a scuola. E, in quel momento, scatta un attimo di commozione. Winners è Sognando Beckham che incontra La sala professori, un film simbolo sul calcio femminile e uno dei migliori film sulla scuola. «Oggi in tutto il mondo tutti vogliono fare la guerra» ci ha raccontato un cittadino curdo presente al Festival. «In un mondo come questo i curdi hanno bruciato le armi. E hanno scelto la pace. Nonostante sia un popolo che subisce da oltre cento anni». «Il film è girato dal punto di vista di una ragazza che è diventata una tedesca. I curdi in Germania sono inseriti bene» ha aggiunto. «Oggi sono membri del parlamento, o lavorano nell’amministrazione comunale. C’è chi fa l’infermiere. E c’è chi fa il kebab, che è sempre il nostro mondo».

In copertina Arzé di Mira Shaib (Libano / Egitto / Arabia Saudita, 2024, 93′)

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