
EURO BALKAN FILM FESTIVAL: IL SILENZIO DEGLI DEI, ODISSEA E LIMBO SULLA ROTTA BALCANICA
Il silenzio degli dei, del regista serbo Vuk Ršumović, racconta una storia lungo la rotta migratoria balcanica, una vicenda realmente accaduta di vincoli, impotenza e burocrazia. Lo abbiamo visto nell’ambito dell’Euro Balkan Film Festival 2025
03 Novembre 2025
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Sulla televisione, per un attimo, scorrono le immagini del piccolo Aylan Kurdi. Era il bambino siriano di etnia curda con la maglietta rossa che era naufragato sulle coste della Turchia durante il tentativo di raggiungere un’isola della Grecia. Aylan era diventato il simbolo della crisi migratoria e dei rifugiati che cercavano di arrivare in Europa tra il 2013 e il 2015. È un’immagine che appare a un certo punto de Il silenzio degli dei (Dwelling Among The Gods), il film del regista serbo Vuk Ršumović (Serbia-Italia-Croazia, 100’, 2024), che racconta un’altra storia di migrazioni, in quel percorso che è la rotta migratoria balcanica, una vicenda realmente accaduta. Una storia di vincoli, di impotenza, di burocrazia. Lo abbiamo visto nell’ambito dell’Euro Balkan Film Festival 2025, alla Casa del Cinema di Roma, durante la giornata di apertura.

Bloccati in un limbo, in una vicenda kafkiana
Al centro de Il silenzio degli dei c’è la famiglia di Fereshteh (Fereshteh Hosseini), una donna afghana che cerca di scoprire l’identità di un rifugiato perito sul cammino, attraversando il labirinto burocratico che circonda la già tragica esperienza della migrazione. Per uscire da questo labirinto servono test, servono documenti, ma i rifugiati i documenti non li hanno. Servono dei soldi, tanti soldi, per la custodia del corpo e per poterlo riavere. Ma i soldi sono necessari anche per pagare i trafficanti e il viaggio. Fereshteh e la sua famiglia così sono bloccati in un limbo. E tutto questo mentre il tempo stringe, perché il corridoio per arrivare in Germania sta per chiudersi. Quella di Fereshteh e la sua famiglia è un’Odissea da fermi, un’incredibile vicenda kafkiana. È una prigione che ne contiene un’altra e ancora un’altra. «Quello che ho cercato di fare è restare aderente alla storia, alla cultura afghana e al background dei personaggi» ci ha raccontato Vuk Ršumović. «Non sapevo assolutamente nulla della tradizione e del popolo afghani. Quando faccio cinema mi piace occuparmi di cose che non conosco. Odio quando il cinema americano mostra i personaggi che vengono dai Balcani, è quasi comico. Così non volevo essere quello non guarda le cose dall’esterno ma dall’interno. Volevo che, vedendo questo film, gli afghani potessero sentirlo come loro». Si sente, da parte dell’autore del film, un grande rispetto per la storia che racconta e per la cultura dei suoi protagonisti. «Mi sono chiesto se avessi il diritto di fare questo film» spiega. «Mi sono detto che potevo farlo, anche se si trattava di mondi diversi: potevo parlare di una donna, di una diversa cultura, di una diversa lingua. Bisogna entrare all’interno per cercare di capire, e bisogna chiedere aiuto. Che è venuto dall’attrice Fereshteh Hosseini (l’attrice ha dato il nome al suo personaggio, come gli altri attori principali, ndr), che è stata di grandissimo aiuto».
Un film fatto di storie vere, con qualcosa di neorealista
Per alcuni momenti, quando vediamo le persone parlare guardando in macchina, e in alcune scene d’insieme, in esterni, Il silenzio degli dei sembra quasi un documentario. È costruito come se lo fosse, proprio per restituire il senso della storia vera, accaduta nel 2015, a Belgrado, nel pieno della crisi migratoria, quando in Serbia arrivarono 10mila persone. C’è allora qualcosa di neorealista in quest’opera. «I personaggi principali sono personaggi reali» racconta il regista. «I tre personaggi serbi sono attori professionisti. Nella fase preparatoria hanno lavorato insieme alla protagonista, Fereshteh Hosseini, nata a Teheran, che non è una professionista, ma da bambina ha recitato in contesti amatoriali e ora lavora in film iraniani. È hazara. E la storia del padre che obbliga il figlio a partire con un trafficante non era in sceneggiatura, ma è la vera storia di suo fratello. Le ho detto che se voleva condividere questa vicenda così intima l’avrei inserita nel racconto». «Quando suo fratello è tornato in Iran ha detto che, quando lo hanno mandato via, ha sentito che non lo volevano più con loro ed è stata un’esperienza traumatica» continua. «Ci sono tanti bambini che viaggiano da soli, ma le famiglie li mandano in viaggio perché hanno per loro la speranza di una vita migliore».
Donne che non hanno mai potuto scegliere
Il cuore del racconto è Fereshteh. È una donna che, arrivata a questo punto della sua vita, decide di fare una scelta. Finora, nella sua vita, non aveva mai potuto scegliere. «Un giorno sono venuti e hanno detto: questo è tuo marito. L’ha scelto la mia famiglia. Non ho mai scelto niente in vita mia. Sono stanca di non decidere più» sentiamo a dire al suo personaggio nel film. È una donna che non ha mai potuto studiare. Che non ha mai lavorato. «Abbiamo lavorato molto e già durante le prime prove l’attrice mi ha detto che non voleva impersonare quel personaggio: troppo tradizionale, troppo conservatrice» ricorda il regista. «Ho cercato di convincerla. Il suo è un personaggio pieno di complessità e contraddizioni come siamo tutti noi. Da una parte intraprende un processo di liberazione, comincia a prendere decisioni da sola. Dall’altro obbliga la figlia ad indossare il velo». Il regista avvicina questa storia a una celebre tragedia greca. «Mi sono imbattuto in un libro su Antigone» racconta. «Nell’Antica Grecia, all’inizio, il pubblico non l’ha vista come un’eroina ma come una pazza. Anche nel film accade questo: il suo personaggi ha qualcosa di folle». Fereshteh Hosseini è anche il cuore visivo del film: il regista punta sui suoi primi piani e crea degli affreschi pittorici: i capelli castani di Fereshteh si combinano con i colori verdi del velo. E quel velo, insieme al suo volto dolce e dolente, la rende una sorta di Madonna contemporanea. È un’attrice straordinaria, capace di mezzi toni, di una recitazione sommessa come di grandi scene madri e di urla di dolore. Il risultato è un messaggio molto forte e universale, capace di raggiungere tutti. «La prima de Il silenzio degli Dei è stata a Sarajevo e le persone si sono riconosciute» spiega il regista. «Hanno riconosciuto che è una storia su di noi, anche se ci sono persone che vengono dal Medio Oriente. Tutto il buon cinema è politico» conclude l’autore. «La ragione profonda che mi ha spinto a fare questo film è che abbiamo perso il nostro legame con i morti. La vita è diventata profana e banale».






