
SE VOGLIAMO LA PACE PREPARIAMO LA PACE. SE PREPARIAMO LA GUERRA AVREMO SOLO LA GUERRA
Il servizio civile universale, l’obiezione di coscienza e la mobilitazione per la pace in un’Italia in cui le spese militari sono aumentate del 12%. Mario Pizzola: «I leader europei ci stanno convincendo che dobbiamo rinforzare gli armamenti e tornare al servizio militare obbligatorio. Dobbiamo rispondere con un no organizzato. Il 68% dei giovani oggi non si arruolerebbe. E non per paura. Ma perché si capisce cosa c’è dietro la guerra, che trappola è la guerra»
16 Dicembre 2025
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«Addio mia bella, addio che l’armata se ne va, e se non partissi anch’io sarebbe una viltà». Questo dicevano le parole di una vecchia canzone sulla guerra. Ed è con queste parole che Claudio Tosi, vicepresidente del CSV Lazio, ci ha fatto riflettere sui meccanismi che regolano le idee della guerra. Se non vado sono vile, vuol dire che mi stacco dagli altri che partono. È l’omologazione della guerra. In occasione della Giornata Nazionale del Servizio Civile Universale, ieri, lunedì 15 dicembre, il CSV Lazio ha ospitato l’iniziativa Servizio civile, servizio di pace. Le nostre azioni alternative alla logica della guerra, una mattinata di confronto, approfondimento e testimonianze dedicata al ruolo del servizio civile nella promozione della pace e della difesa non armata. In un’Italia in cui, nell’ultima legge di bilancio, le spese militari sono aumentate del 12%, e nell’ultimo decennio di quasi il 60 per cento, il confronto e la mobilitazione su questi temi sono quanto mai necessari. «Il nostro è un servizio civile che rifiuta la logica della guerra» ha spiegato Claudio Tosi. «che nasce nel non vedere più l’altro come simile a noi, nel vederlo così estraneo e lontano da pensare di poterlo semplicemente togliere. Pensare di poter togliere gli altri perché sono un problema ai nostri occhi è la vera bestialità». «Come Rete della Nonviolenza abbiamo costruito qualcosa in cui cerchiamo di pensarci insieme, in comunità» continua. «Abbiamo scelto di non andare verso un sistema militare dove marciare e dire “sissignore!” sempre più forte. Abbiamo scelto di confrontarci con chi ci sta vicino, aprire dialoghi».
Si vis pacem, para pacem
«Si vis pacem, para pacem.». Così Claudia Lamonaca di Archivio Disarmo, istituto di ricerca internazionale che dal 1982 si occupa di ricerca, formazione e promozione socioculturale al disarmo. Ma che vuol dire prepararsi alla pace? Vuol dire educare alla pace, promuovere la pace. Cominciare a dialogare. E capire cosa ostacola un processo di pace. I dati del Global Peace Index ci dicono che la spesa militare è aumentata in 91 paesi del mondo e che il livello medio di pace è diminuito dello 0,56%. I conflitti nel mondo oggi sono 56, il numero più alto mai registrato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. «Il mondo si sta armando: più armi generano più sicurezza, si dice» riflette Claudia Lamonaca. «Come è allora che in un mondo più sicuro le guerre stanno aumentando? Il Global Peace Index ci dice che i paesi più pacifici non sono quelli più militarizzati, ma quelli con le istituzioni più inclusive e funzionanti, con i più bassi livelli di diseguaglianza sociale e con la più elevata coesione sociale. Non chi è più armato ma chi ha più stabilità. Oggi si parla di sicurezza, ma si costruiscono le condizioni dell’insicurezza. È un paradosso». Con la guerra in Ucraina si è tornati alla minaccia nucleare, eppure con il Trattato di non proliferazione nucleare le cose sarebbero dovute andare in modo diverso. «Durante la Guerra Fredda si contavano 70mila armi nucleari» commenta Lamonaca. «Oggi ci sono 12.500 testate, il 90% detenuto da Usa e Russia. Potremmo ritenerci soddisfatti? No. La logica non è diminuire. La logica dovrebbe essere quella che non ne esista neanche una. Non ci sarà mai sicurezza finché ce ne sarà anche una soltanto. Non si può lavorare per ridurle. Devono essere messe al bando».
Mario Pizzola: «Dobbiamo rispondere con un no organizzato»
«Come abbiamo fatto a portare in guerra un’intera nazione? È facilissimo. Basta dire che c’è un nemico che vuole attaccarci, che i pacifisti sono vigliacchi, che sono persone che non vogliono bene alla Patria. Questo accade dappertutto, sempre». A dire queste parole era Hermann Göring, il vice di Hitler e a ricordarle è stato Mario Pizzola, protagonista della prima obiezione di coscienza collettiva in Italia nel 1971. «I leader europei ci stanno convincendo che c’è un nemico alle porte che ci vuole attaccare e che dobbiamo rinforzare gli armamenti e tornare al servizio militare obbligatorio» ci ha raccontato. «Ma è davvero così? Davvero dobbiamo riportare la guerra tra Ucraina e Russia, che ha delle ragioni precise, a un conflitto di livello europeo che porterebbe a un conflitto nucleare?». La questione è un’altra. La preparazione alla guerra nasce dalla propaganda. «I media battono su questo tasto, per preparare le persone alla guerra prima mentalmente che fisicamente» ragiona Pizzola. «Le guerre sono sempre scoppiate perché c’era un nemico assoluto: dopo la caduta del muro era il terrorismo. Ora è la Russia. Ma dietro le guerre ci sono grandi interessi economici. Oggi il complesso militare industriale è cresciuto enormemente e condiziona le scelte dei governi». Qual è allora la risposta? «Dobbiamo rispondere con un no organizzato, con la disobbedienza civile, con una dichiarazione di obiezione di coscienza. Il 68% dei giovani oggi non si arruolerebbe. E non per paura. Ma perché si capisce cosa c’è dietro la guerra, che trappola è la guerra. Che la guerra non ha senso».

Mao Valpiana: «L’obiezione di coscienza spezza la catena del “lui si arma, mi armo anch’io”»
«Occhio per occhio. E tutto il mondo diventerà cieco». Lo diceva Gandhi e ce lo ricorda Mao Valpiana, Presidente del Movimento Nonviolento, che sta lavorando su una grande campagna di obiezione di coscienza. «Una possibilità di spezzare questa catena di follia è chiamarsi fuori» spiega. «Io non ci sto. Non aspetto l’altro. E inizio io. L’obiezione di coscienza è la risposta che spezza la catena del “lui si arma, mi armo anch’io, lui è forte io devo diventare più forte, lui mi attacca e io rispondo, lui ha la bomba atomica e devo averla anch’io”». La campagna di obiezione alla guerra è stata lanciata nei giorni successivi all’invasione della Russia in Ucraina e lavora a due livelli, quello internazionale e quello nazionale. «Con il primo vuole raccogliere fondi per sostenere quei giovani che in Ucraina, in Russia, in Israele, in Palestina e Cisgiordania fanno la scelta di non avvallare la violenza» spiega Valpiana. «Subiscono repressioni pesanti: in Bielorussia c’è la pena di morte per la diserzione. Vogliamo creare un fondo per sostenere la difesa legale nei tribunali degli obiettori russi, israeliani e ucraini che escono dai confini dei loro Paesi per chiedere asilo politico in Europa: chiediamo all’UE di dare lo status di rifugiati politici a chi diserta». A livello nazionale è stato istituito un modulo, «una scelta coerente con la Costituzione, perché sia riconosciuta la dimensione giuridica di obiezione di coscienza, e si possa dichiarare di essere obiettori già da oggi, essere inseriti nell’albo nazionale, e in caso di guerra non si possa essere richiamati» spiega Valpiana. «È la risposta più limpida, più cristallina, più inattaccabile in questo percorso che non ci deve vedere arrivare sul baratro della Terza Guerra Mondiale».

Giulio Marcon: «Per le armi superiamo la spesa per sanità e istruzione»
L’intervento di Giulio Marcon, scrittore, deputato e promotore della campagna Sbilanciamoci!, che propone una finanziaria alternativa, con la riduzione di oltre 15 miliardi di della spesa militare, è quello che fa più male. Perché ci rendiamo conto davvero dei soldi buttati via in armi. «Se si legge la relazione del Ministero delle imprese e Made in Italy si vede che nei prossimi tre anni 24 miliardi saranno di aiuti al nostro sistema industriale, e di questi 10 saranno per l’industria militare, circa il 40%» ci svela. «Si tratta di soldi spesi non per le industrie italiane e per creare occupazione, ma per commesse di cui beneficiano altri paesi: l’80% sarà speso per acquistare armi dagli Stati Uniti d’America». È un’economia di guerra, una scelta strategica di tutto l’Occidente. «È quella di destinare progressivamente il 5% per cento del Pil alla spesa militare» ci spiega Marcon. «Che significa circa 140 miliardi per l’Italia, che aumenteranno via via. Per il servizio nazionale pubblico spendiamo 135 miliardi. Per l’istruzione spendiamo il 4% per cento del Pil. Per le armi andiamo a superare la spesa per la sanità e l’istruzione». Sono numeri che non hanno bisogno di commenti. Bisogna cambiare rotta. Se vuoi preparare la pace prepara la pace. Se prepari la guerra, avrai solo la guerra.
Immagine di copertina: Naoki Ishida







