LA CITTÀ CHE CURA: A TRIESTE LA SALUTE SI FA CON LA RETE SOCIALE

Erika Rossi racconta il progetto Microaree, unico in Europa, in cui nella città di Basaglia si cura pensando alle relazioni prima che all’ospedalizzazione

Per curare non bastano le medicine, i professionisti, le strutture sanitarie. Per la nostra salute, fisica e mentale, serve qualcos’altro: una comunità in cui integrarci e vivere, delle persone che ci ascoltino, che ci siano accanto costantemente. La città che cura, il film di Erika Rossi in uscita il 9 maggio distribuito da Lo Scrittoio e Tico Film, racconta la storia di un’esperienza unica in tutta Europa, quella di Microaree, una realtà che interviene sul territorio per influire positivamente sulla salute delle persone. Il progetto è partito a Ponziana, un quartiere di Trieste, la città di Basaglia, nel 2000, e oggi è una realtà importante. Microaree è un progetto rivoluzionario: la medicina territoriale, o medicina di comunità.  Un’idea secondo cui “curare” significa creare relazioni, conoscere le persone e i loro bisogni, stare insieme e condividere i problemi di ogni giorno: così si aprono nuove opportunità, nuovi scenari di vita in cui mettersi nuovamente in gioco. È un’idea che al centro ha i concetti di prossimità, ascolto, e la gestione individuale dei problemi delle persone.

 

la città che curaL’ONDA LUNGA DI BASAGLIA. La prima versione del progetto Microaree è nata nel 1998, ma è intorno al 2005 che è diventato un progetto importante. Ogni Microarea copre una popolazione che varia tra i 2000 e i 2500 abitanti, e oggi a Trieste ci sono 18 sedi che coprono altrettanti quartieri. «Sono di Trieste e questo progetto è applicato solo qui» ci ha raccontato Erika Rossi. «Nasce sull’onda lunga dei cosiddetti basagliani. L’idea è quella di allargare il concetto di salute alla vita stessa della persona, al di là della malattia. È un concetto decisamente basagliano: i creatori del progetto Microaree sono gli eredi di Basaglia, Franco Rotelli è quello che lo ha sostituto quando morì. Il concetto è quello di rimettere al centro la persona nel suo contesto di vita, al di là dei suoi problemi di salute, e considerarla come una persona a tutto tondo, nelle sue problematiche più ampie, soprattutto nella sua rete sociale. L’assunto di base è che la salute è il risultato di uno stato che comprende ben più della malattia o del benessere, ma è lo stato delle relazioni sociali di cui la persona dispone. Non è il risultato della medicalizzazione di una persona, ma la quantità delle relazioni – lavorative come amicali – che la persona ha nella sua vita: questo determina anche la possibilità che una persona ha di guarire quando ha problemi di salute. Se una persona è sola, fragile, ha problemi economici, e non c’è una rete o un contesto intorno a lei, non riesce a curarsi, perché l’accesso alla salute è difficile. Ecco qual è l’eccellenza di questo progetto di salute sul territorio, unico nel suo genere: dà alla persona che è sola la possibilità di fare riferimento a una rete sociale: la presenza dell’istituzione all’interno del territorio, in spazi che diventano punti di riferimento, può essere un aiuto non solo per una visita medica, ma per qualsiasi problema che la persona abbia, anche solo quello di non essere solo».

Ma l’aspetto eccezionale del progetto Microaree è anche un altro. «È proprio l’istituzione che crea questo servizio, non sono delle singole associazioni. Sono operatori della salute dell’azienda sanitaria locale. È un vero e proprio progetto di governance, in coordinamento con il Comune di Trieste, e con l’ente per l’edilizia popolare, l’Ater. Non esiste da nessuna altra parte al mondo un’istituzione che crei un progetto così coordinato all’interno del territorio. La cosa più importante è stata il fatto che Franco Rotelli fosse direttore dell’azienda sanitaria: il fatto che ci siano dirigenti illuminati che hanno una visione lungimirante e consapevole che la salute non è solo ospedalizzazione ma anche ben altro è il primo passo. Nel momento in cui il direttore dell’azienda sanitaria dialoga con funzionari di Comune e Ater altrettanto lungimiranti ecco che si possono creare progetti territoriali eccellenti».

 

la città che curaCON GLI OCCHI DI MONICA. Erika Rossi, la regista del film, ha vissuto un anno con gli operatori del progetto Microaree. E ha scelto di farci sposare il punto di vista di Monica, una delle referenti del progetto a Ponziana. Insieme a lei entriamo nelle vite Plinio, un anziano pianista ipocondriaco che non vuole più uscire di casa, di Roberto che affronta la fatica di vivere dopo un grave ictus, di Maurizio che paga lo scotto di una vita di eccessi. Molto più che un’assistente sociale, Monica sembra un’amica delle persone che segue: gira per il quartiere, conosce tutti, raggiunge le persone nelle loro abitazioni. E, prima di tutto, le ascolta. E ci parla. Anche di cose che non riguardano la medicina. Sa come tirare su il morale alle persone. È portatrice sana di un’umanità, un’empatia che non è davvero scontata in un ambito come questo. Quello che normalmente chiameremmo l’ambito dell’assistenza. Ma è chiaro che è molto di più. E la chiave è proprio questa. «Monica è un referente di Microarea» ci spiega Erika Rossi. «E, come Microaree è un progetto sui generis, che va oltre le normali performance di una struttura sanitaria, così il referente è una figura poliedrica ed eclettica. Ha principalmente una formazione sociologica, ma molto corposa: quasi tutti i ragazzi del gruppo ha una formazione di questo tipo, altri vengono da un percorso infermieristico ma hanno fatto un’ulteriore formazione per comprendere la visione allargata, sociale del progetto.  Diversi di loro si sono formati con figure di rilievo come Ota De Leonardis, che, sull’onda basagliana, ha creato un master medicina territoriale a Milano».

Ci chiediamo la naturale empatia di Monica dipenda dalla sua indole, o se sia il frutto del suo percorso di formazione. «È l’approccio basagliano alla salute e alla persona» ragiona la regista. «Sicuramente Monica è una persona empatica, capace della cosiddetta presa in carico, un’effettiva presa di responsabilità rispetto ai percorsi e alla persona che arriva davanti a lei. Senza nulla togliere a questa sua capacità, posso dire con cognizione di causa che questo è uno dei dati che emerge dopo essersi formato in questo ambito. È proprio la concezione basagliana che risveglia la capacità empatica della persona, è quella formazione che ti fa capire che la persona non è il suo problema di salute, che tu non sei importante perché le fornirai una prestazione ambulatoriale, ma perché sarai una persona davanti a quella persona. Cosa interessava a Basaglia, il malato o la malattia? Sicuramente il malato. E questi sono concetti su cui gli operatori della salute a Trieste si formano da quarant’anni». Ci chiediamo anche quanto sia duro, doloroso, vivere un lavoro in questo modo, entrare in empatia e legarsi così tanto a chi si aiuta. «La risposta mi sembra ovvia» riflette Erika Rossi. «È altrettanto vero che sono tutti consapevoli del lavoro che fanno, e hanno grandi soddisfazioni nel vedere percorsi di riscatto, perché buona parte del loro lavoro è quanto loro riescano a stimolare queste persone a rimettersi in gioco. Sono tanti gli esempi di persone che non vedevano per se stesse alcun tipo di impiego, di futuro, di prospettive, e che, grazie a Microaree, cominciano a vedere di nuovo, a rendersi utili, a essere partecipi di questa piccola comunità. Alla fine del film conosciamo che ben due dei tre protagonisti sono morti. Io avevo stretto un legame con loro, perché sono stata con loro con un anno, Monica li seguiva da anni quotidianamente. Sono sicura che abbia sofferto molto della loro perdita. Ma sicuramente dall’altro la sua energia si rinnova proprio perché ci sono sempre motivi per rinnovare l’entusiasmo. Lo voglio dire: a me sembrano comunque degli eroi quotidiani, e ho fatto lavoro questo film per raccontare il tipo di lavoro che fanno e la passione che ci mettono. Non sono comunque dei tipi comuni».

 

la città che curaUN SENSO DI COMUNITÀ. Uno degli aspetti più importanti di questo progetto è l’idea della continuità: essere dentro alla storia di una persona. Perché seguire una persona solo nel momento in cui ha bisogno, quello del ricovero, vuol dire conoscerla solo in quel momento, non sapere il prima o il dopo. Gli operatori di Microarea sono sempre lì, in qualsiasi momento. Quello che ci arriva da questo viaggio immersivo a Ponziana, Trieste, è un’idea di comunità, di solidarietà. E, in fondo, anche di serenità. L’idea del progetto è far sentire le persone parte di un territorio, che vuol dire anche farli sentire responsabili di un territorio. Negli alloggi messi a disposizione dall’Ater a via Battera, c’è un portierato sociale, e una riunione condominiale una volta a settimana. Il che ha permesso alle persone di cambiare la percezione che aveva del prossimo. Perché parlandosi, conoscendosi, si attenuano in conflitti e le tensioni. «Gli obiettivi del progetto Microaree sono diversi e vari» ci spiega la regista. «Io ho cercato di far capire l’importanza del progetto, documentando alcune situazioni che ne facessero comprendere la complessità. Affrontare degli aspetti tecnici è sempre un po’ al limite, ma alcune cose erano fondamentali per far capire che non parlavo di Monica come di Maria Goretti, ma volevo far capire che dietro c’è un pensiero, e volevo fare un film che potesse aiutare questo progetto ad espandersi e ad essere conosciuto».

Ma cosa serve allora a un progetto come Microaree per essere conosciuto, e diffondersi? «Io e lei siamo agenti attivi di questo percorso» ci risponde la regista. «Microaree è attivo sul territorio da più di dieci anni e ad oggi non è riuscita a comunicare il progetto in modo sufficientemente forte ed efficace per uscire dal suo ambito. Nel momento in cui giravo La città che cura è stata fatta un’operazione fondamentale, quella di sottoporre Microaree a una misurazione. E in questo momento Microaree ha dei numeri che le danno ragione. Ma se quei numeri non vengono letti da quei dirigenti illuminati di cui stavamo parlando, siamo senza armi. Allora un film, un articolo, è fondamentale perché il tour di La città che cura va di pari passo alla presentazione del libro omonimo. Nelle città dove verranno presentati si cercherà di andare a raggiungere quella rete associativa e quelle istituzioni che possono avere interesse a conoscere meglio il progetto». I dati sono importanti, e parlano di una diminuzione importante del numero di ricoveri nelle aree dove sono presenti le Microaree. Anche se i dati non possono, da soli, dire che cos’è il progetto. «È vero che è difficile rappresentare Microaree, men che meno attraverso dei numeri» riflette la regista. «Ma se possono essere importanti per capire l’efficacia del progetto ben vengano. È chiaro che l’umanità di Monica si capisce meglio guardando un film».

 

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