ACCESSO ALLE CURE: CON LA MEDICINA SOLIDALE CONTRO L’APARTHEID SANITARIO

Dal 2004 nelle periferie di Roma l’Istituto di Medicina Solidale garantisce l'accesso alle cure a chi non può avere un’assistenza sanitaria

Quello di un medico è da sempre un punto di vista privilegiato per osservare le condizioni di vita delle persone. In particolar modo chi sceglie di essere un “medico solidale”, oltre che un aiuto fondamentale per chi è in una condizione tale da non avere accesso alle cure, è anche un testimone che può dirci molto sulle condizioni di vita in Italia oggi, sulle migrazioni, sulle emarginazioni e sulle nuove povertà.

L’Istituto della Medicina Solidale (IMES) è un’associazione di volontariato nata nel 2003 e operativa dal 2004, ed è attiva con vari ambulatori in diverse aree della periferia romana per persone socialmente svantaggiate ed escluse dall’assistenza sanitaria, che non hanno, quindi, accesso alle cure di avrebbero bisogno.

Nasce per garantire il diritto alla salute per le fasce sociali povere ed emarginate realizzando sportelli socio-sanitari a bassa soglia d’accesso. In questi anni ha effettuato 100mila visite mediche, ha sostenuto 4mila gravidanze, e ha coinvolto più di 3mila bambini in programmi di distribuzione di viveri. Il 70% degli assistiti è straniero, e il 30% è italiano. Il 70% degli assistiti sono donne. Di questo, e molto altro, abbiamo parlato con la Dott.ssa Lucia Ercoli, responsabile dell’associazione.

Da quale idea è nato l’Istituto della Medicina Solidale?
«È nato perché noi, un gruppo di medici a Tor Vergata per l’apertura del Policlinico, eravamo desiderosi di conoscere i problemi di salute del territorio.

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Un’immagine della Dott.ssa Ercoli: «Si va allargando, oltre alla fascia di povertà economica, anche la fascia di povertà sanitaria».

A quel tempo l’ospedale non aveva né un pronto soccorso né un punto di primo soccorso. Avevamo fatto una mappatura dei bisogni, prima con dei punti di ascolto nella parrocchia, poi con una serie di sopralluoghi, e ci eravamo resi conto della fragilità di questo territorio rispetto all’indice di povertà, al numero di comunità di migranti, rispetto alla presenza di campi Rom molto vasti e fasce di emarginazione anche locale molto ampie. Ci chiedevamo come fare per facilitare l’emergere delle problematiche di salute legate a queste condizioni, e poi che tipo di risposta articolare. Ci siamo resi conto che in queste comunità il problema salute e l’accesso alle cure erano gli ultimi problemi ad essere percepiti. C’erano problemi più immediati, violenti, dall’assenza del lavoro alla mancanza della casa. Abbiamo pensato che in queste condizioni di vita non si potesse dare la solita risposta alla questione salute, ma che servisse un modello che riducesse gli impedimenti».

Perché avete scelto la forma dell’associazione di volontariato?
«Il volontariato ha una ragione concreta. Dare un servizio sanitario ha dei costi. Di fatto i nostri ospedali non sono più case di ricovero e cura, ma sono aziende, e la salute entra in un discorso di profitto e costi. Il volontariato poteva essere un’energia in grado di risolvere questo problema. Si tratta di un volontariato alto, fatto da professori universitari e professionisti di strutture che, al termine del loro mandato, danno la disponibilità a curare i meno fortunati in questa forma. È notizia di questi giorni che il nostro Ministro si è accorto, per fortuna, che le cure sono sotto la soglia minima in 5 regioni. Si va allargando, oltre alla fascia di povertà economica, anche la fascia di povertà sanitaria: ormai migliaia di persone vivono in una condizione di apartheid sanitario. Ma si fa ancora finta di non vederlo».

Chi sono le persone che si rivolgono a voi?
«Le donne e i bambini sono i più colpiti. Le donne soprattutto per una condizione fisiologica che è quella della maternità. E da questo nasce poi l’ambulatorio pediatrico. Ogni anno seguiamo tra le 250 e le 400 donne in gravidanza, e abbiamo costruito con queste maternità il nostro ambulatorio pediatrico. Ci sono nuove forme di povertà che colpiscono più il fronte italiano, che è legato alla perdita del lavoro e alla perdita dell’abitazione, al doversi ritrovare senza una residenza, per strada, in macchina o in case occupate. È una situazione molto seria».

Il servizio si chiamava Medicina Solidale e delle Migrazioni. In questi anni avete potuto osservare la condizione di molti migranti…
«Adesso la rete di ambulatori e farmacie di strada che abbiamo creato a Roma si chiama Ambulatori di Medicina Solidale.

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«Il medico deve saper interpretare il senso della malattia o della salute in culture diverse. E questo diventa difficile in condizioni di emarginazione sociale»

Abbiamo tolto la dicitura “delle migrazioni” perché la povertà taglia trasversalmente tutte le comunità, non solo quelle dei migranti o dei Rom ma anche gli italiani. Negli ultimi anni sicuramente c’è stata una crescita dei cosiddetti migranti in transito, basta vedere quello che è accaduto alla Stazione Tiburtina a Roma  e al Centro Baobab. Le persone continuano ad arrivare attraverso il mare. Tagliare con le proprie radici, lasciare il proprio paese non è una scelta a cuor leggero, chi la fa deve avere una motivazione evidente. Nella maggior parte dei casi l’interesse non è quello di migliorare la propria condizione di vita, ma quello di garantire un futuro ai propri figli, perché nei paesi da cui provengono non c’è questa possibilità. In moltissimi ci hanno fatto questo discorso. È logico che condizioni di conflitto, di guerra, di persecuzione razziale e religiosa rendano tutto più acuto. Ma il denominatore comune è questo: dare una possibilità di vita migliore ai propri figli. Le migrazioni stanno diventando più femminili: le donne hanno superato il 50% del totale dei migranti. E le donne si spostano proprio per questo».

La medicina della migrazione ha bisogno di una formazione adeguata. Vi occupate anche di questo?
«Ci occupiamo anche della parte formativa, su mandato dell’Università di Tor Vergata, nell’ambito della Terza Missione. Sono corsi di base di medicina della migrazione che rivolgiamo ai nostri studenti.

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«Per molte persone sole avere anche un unico punto di riferimento può fare la differenza tra la vita e la morte»

Come tutte le parti disciplinari, c’è un dato conoscitivo da apprendere: i dati sui flussi migratori, come si sono trasformati, il bisogno di recuperare la memoria non troppo lontana, riguardo la nostra migrazione all’estero, cioè dare elementi storici sui flussi migratori che hanno coinvolto da sempre la storia dell’uomo, raccontare cos’è cambiato negli ultimi vent’anni, quali sono le comunità più rappresentate sul territorio nazionale, come si è allargata la fascia di popolazione straniera, che non è solo la migrazione irregolare ma anche quella neocomunitaria. Il 46% dell’immigrazione oggi è dell’Est Europa. Il medico che si forma in Italia oggi sa che deve rivolgersi a persone che non appartengono tutte alla nostra cultura. Il medico deve essere in grado di interpretare il senso della malattia o della salute in queste culture. E questo diventa difficilissimo in condizioni di emarginazione sociale».

C’è qualche storia che l’ha colpita particolarmente in questi anni?
«Più che storie si tratta di condizioni. Una prima condizione che mi ha colpito è a Roma, in una capitale d’Italia, la malnutrizione infantile: ci sono molti bambini sottopeso e con deficit di crescita perché non possono mangiare. La seconda è quella delle donne vittime di tratta, un fatto che ci fa prendere coscienza che la schiavitù oggi non è una piaga eliminata. E poi la solitudine di tantissime persone, con cui la vita a un certo punto sembra accanirsi, e per le quali avere anche un unico punto di riferimento può fare la differenza tra la vita e la morte. La scelta della medicina solidale è quella di non creare impedimenti per le persone che vengono da noi rispetto alla domanda di aiuto che ci portano».

ACCESSO ALLE CURE: CON LA MEDICINA SOLIDALE CONTRO L’APARTHEID SANITARIO

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