AMNESTY: GAZA, SIAMO UMANI?
La campagna The Humanity Check, firmata Michele Mari per Amnesty International ha vinto un Bronzo ai Cannes Lions. Mari: «Ogni volta che i ReCaptcha chiedono “sei umano?” diciamo di sì, è ovvio. Ma davanti a questa catastrofe la domanda se sei umano te la devi fare davvero»
25 Luglio 2024
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«How Many Times A Day Do You Prove You’re Human?» «Quante volte al giorno dai la prova di essere umano?» «In situazioni come queste l’umanità deve prevalere». «Are We Human? Sign Now!” «Siamo umani? Firma adesso». È il claim che appare dalla campagna The Humanity Check, creata da Michele Mari e un team di creativi per Amnesty International. The Humanity Check ha vinto un Bronzo ai Cannes Lions, il festival mondiale della pubblicità.
Il 7 ottobre si è verificata una devastante escalation tra Israele, Hamas e altri gruppi armati palestinesi. Nel mezzo di questo tumulto, Amnesty International ha lanciato una campagna digitale per trasformare gli spettatori dei social in attivisti. The Humanity Check ha sfruttato la logica dei reCAPTCHA per catalizzare l’azione sociale, trasformando la verifica di routine in un atto di solidarietà umana. Ha sfidato gli spettatori passivi online a diventare agenti di cambiamento. Ogni post, intriso di statistiche aggiornate al minuto, è culminato in un “controllo dell’umanità” e in un invito all’azione per firmare la nostra petizione per un cessate il fuoco. Di questa campagna, geniale e toccante nella sua semplicità, abbiamo parlato con il direttore creativo Michele Mari.
Qual è l’obiettivo di The Humanity Check?
« A un mese dal lancio, la richiesta è stata di dare visibilità alla petizione già on line da qualche settimana per supportare le attività di Amnesty. Serviva velocità e, come sempre in queste occasioni, il budget era minimo, anche se avevano già dei materiali, soprattutto fotografici. Dovevamo trovare un’idea forte, che potesse utilizzare materiali esistenti, ed essere pensata sui social e sul digital».
The Humanity Check usa i modelli del ReCaptcha, che leggiamo ogni giorno, con cui interagiamo in modo meccanico. Ma in quel “Are You Human?” tutto è ribaltato, le parole vengono riempite di un significato enorme: ci chiede di fare i conti con la nostra umanità. Come è nata l’idea?
«È venuta in modo naturale. In tutti i documenti di Amnesty e nelle discussioni la parola che veniva fuori maggiormente era umanità. Oggi nel digital ognuno sfoglia le storie e fa swipe: trovi foto di cronaca ma dedichi quel poco di attenzione e passi avanti, non è detto tu faccia qualcosa. La stessa cosa fai quando 10-20 volte al giorno ti viene chiesto “sei umano?” e dici sempre di sì. Il senso che dai a quella domanda è relativo, è ovvio che sei umano. Noi lo abbiamo ribaltato. Davanti a questa catastrofe, a queste situazioni tragiche, a queste foto la domanda se sei umano te la devi fare davvero. E diventa più profonda. È un’idea semplice, diretta».
La campagna ha sfidato gli spettatori passivi online a diventare agenti di cambiamento: ribalta il concetto di fruizione dei social media.
«Era proprio questa l’intenzione, mettere insieme questa passività del mezzo, questa passività di risposta alla domanda “are you human”. Due cose che sono passive che metti insieme e trovi questo significato. Caricare le foto di sovrastrutture narrative non avrebbe avuto effetto. Volevamo qualcosa che, una volta vista, facesse dire: “mi stai dicendo qualcosa di più, fammi capire di più”. È venuta in maniera che definisco semplice e naturale, è quello che dobbiamo fare tutti i giorni: analizzi, interiorizzi, e poi ti viene fuori l’idea».
Il lavoro del pubblicitario non è facile: deve farsi venire l’idea a comando, in poco tempo, e ha dei vincoli.
«Secondo me è un insieme di cose. Ci sono alcuni momenti in cui si fanno le campagne un po’ di mestiere. Ci sono momenti in cui, per una campagna come questa di Amnesty o per qualsiasi campagna più profonda, le cose cambiano: ci sono tante informazioni a riguardo, tu stesso rifletti su quelle situazioni e questo ti stimola a trovare la chiave. Proprio perché non puoi trattarlo in modo superficiale, ironico. Sei in un territorio scivoloso: devi trovare una cosa che sia trasversale, alta, che faccia pensare, che ti infili in un territorio più ampio. Non ci sono giochi di parole, non c’è il mestiere, ma cerchi qualcosa di vero».
Ogni post è pieno di statistiche aggiornate al minuto. Come avete fatto in questo senso?
«Per realtà come Amnesty, il messaggio che stai dando spesso è una notizia, contiene una serie di informazioni. Dovevamo prevedere informazioni aggiornate e quei numeri, purtroppo, si aggiornavano continuamente e tragicamente. Abbiamo lavorato insieme per tutto il periodo, è stata una collaborazione piena tra creativi e cliente. Da creativo mi sento di dire che ogni tanto bisogna ridare qualcosa indietro. Ed è stato bello anche aiutare il team di Amnesty, dare una mano a quelli che aiutano».
C’è stato un dato, la statistica, l’immagine che ti ha colpito di più?
«Tutte. Avevo l’idea, perché le informazioni arrivano da vari canali. Eravamo a un mese dall’inizio. Ma vedere questi dati, quei numeri faceva abbastanza impressione. Quando vedi i numeri dei bambini e delle famiglie sfollate e ti rendi conto di quanti minori sono coinvolti, quello ti fa più impressione. Soprattutto perché eravamo a un mese dall’inizio: quelle due cose insieme mi hanno colpito».