CAMPAGNE SOCIALI: IL DILEMMA DELLE IMMAGINI DEL DOLORE

La foto di Aylan ha sollevato un dibattito che vede anche le Ong su fronti opposti. Cerchiamo di capire perché

La foto del piccolo Aylan – il bambino siriano morto annegato sulle spiagge turche – ha riaperto il dibattito sulla possibilità di pubblicare o meno immagini che invadano la sfera intima dei minori. Per diversi giornalisti, scrittori, associazioni umanitarie e autorità lo scatto del corpicino senza vita riversato sulla battigia, andava pubblicato, anche se avrebbe infranto le norme deontologiche della professione giornalistica. Come ha scritto il direttore de “La Stampa”, uno dei due quotidiani italiani che ha scelto di pubblicare la foto di Aylan in prima pagina, «nascondere questa immagine significava girare la testa dall’altra parte».
Già, ma quale deontologia è stata infranta?
In questo caso ci riferiamo ad una specifico regolamento siglato nel 1990 dai principali organi della stampa italiana (FNSI e ODG) insieme al Telefono Azzuro, denominato “Carta di Treviso”. Il documento, stilato per tutelare il diritto alla privacy dei minori coinvolti in casi di cronaca, in uno dei suoi punti recita così: «nel caso di bambini malati, feriti o disabili, occorre porre particolare attenzione nella diffusione delle immagini e delle vicende al fine di evitare che, in nome di un sentimento pietoso, si arrivi ad un sensazionalismo che finisce per diventare sfruttamento di persona».

Il caso di Save the Children

Se per un attimo mettiamo da parte lo scatto di Aylan, ritenuto da molti un’eccezione alla regola giustificata, ci accorgiamo come sovente accade che bambini e minori (soprattutto appartenenti a paesi in via di sviluppo)nelle campagne sociali vengano immortalati o messi in onda senza tutele di alcun tipo. Ad essere coinvolti non sono solo tv e giornali, ma anche organizzazioni non governative e associazioni umanitarie impegnate in campagne di comunicazione sociale. Nei mesi scorsi ha fatto discutere lo spot di raccolta fondi di Save the Children – in onda attualmente sulle principali reti televisive – che mostra un bambino denutrito e affamato di nome John: un minuto e trenta in cui la telecamera indugia sullo stomaco gonfio e sul respiro affannato del piccolo africano di due anni.
In un acceso editoriale pubblicato sulla rivista “Africa”, Maria Mazzola e Marco Trovato puntano il dito contro la campagna, scrivendo che si tratta di «immagini strazianti che durano un’eternità. Speravamo che questa campagna di spot iniziata nel 2013 fosse a breve termine. Invece, dopo Koffi e Aisha, dopo Bishara e Kayembe, adesso tocca a John impietosire i telespettatori per strappar loro nove euro al mese. Una delle più storiche organizzazioni non governative non ha trovato di meglio, a quarantacinque anni dalla guerra e fame del Biafra. Si sta facendo tabula rasa di tutto un ormai lungo e articolato processo di riflessione sull’utilizzo delle immagini di dolore. È lecito (e fin dove? E in quali contesti di fruizione?) “sbattere il mostro in prima pagina”?… anche se il “mostro” è in realtà la vittima».

Tra disciplina e autodisciplina

Di strada se ne è fatta, tanto che l’articolo 46 del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria vieta palesemente alla pubblicità sociale di «sfruttare indebitamente la miseria umana, nuocendo alla dignità della persona, né ricorrere a richiami scioccanti tali da ingenerare ingiustamente allarmismi, sentimenti di paura e di grave turbamento». Ma la Ong replica: «siamo consapevoli che quelle immagini possono toccare la sensibilità di qualcuno. Ma a nostro giudizio vanno trasmesse perché il grido di quei bambini non può restare inascoltato».
Da una parte c’è l’interesse dei fundraiser di poter conquistare nuovi donatori regolari che contribuiscano alle iniziative promosse; dall’altra regolamenti e limiti deontologici posti in essere per difendere dignità e diritto alla privacy dei minori. Come uscirne?
L’associazione delle Ong irlandesi (Dochas), da diversi anni impegnata a stilare un codice di condotta sulla narrazione delle povertà, ha lanciato una singolare iniziativa contro le campagne pietistiche finalizzate alla raccolta di fondi. Don’t like an NGO ad? – Do something about it! (Non ti piace la pubblicità di un ONG? Faglielo sapere!) è il titolo della campagna che invita il pubblico a segnalare quegli spot che ledono la loro o l’altrui sensibilità. Cosa può fare lo spettatore? Innanzitutto verificare se la Ong in questione è firmataria del codice di condotta stilato dall’associazione; contattare via telefono, email o per iscritto la Ong segnalando la violazione delle regole di condotta; in caso di non risposta la segnalazione verrà presa in carico dall’associazione che si interfaccerà con i responsabili della Ong.
Applaude all’iniziativa il blog “Info-cooperazione.it”, che presentando la campagna aggiunge: «in Italia siamo ancora sprovvisti di uno strumento come questo, ma diverse organizzazioni dichiarano di avere codici etici propri, che dovrebbero tutelare l’immagine dei beneficiari dei loro stessi progetti, soprattutto i bambini. Le Ong sono sempre più attente al feedback dell’opinione pubblica oltre che alla redemption delle loro campagne di raccolta fondi».
Da una parte rendere gli spettatori più responsabili e protagonisti dei processi di comunicazione e dall’altra permettere alle Ong di stipulare col pubblico un rapporto onesto di rispetto reciproco. Insieme per far cessare l’industria della “pornografia del dolore”.

CAMPAGNE SOCIALI: IL DILEMMA DELLE IMMAGINI DEL DOLORE

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