C’È UNA PARTE DI POPOLAZIONE CHE ABBIAMO DESTINATO AL CARCERE

“Tre metri quadri. Quattro anni di visite in carcere” di Alessandro Capriccioli è un racconto vivido e sentito che fa toccare con mano il mondo del carcere e aiuta a guardarlo dall’interno

di Maurizio Ermisino

«San Quentin, what good do you think you do? Do you think I’ll be different when you’re through?», «San Quentin, che tipo di bene credi di fare? Pensi che sarò diverso quando sarai passato?». Ci sono le parole di Johnny Cash ad aprire il libro Tre metri quadri. Quattro anni di visite in carcere di Alessandro Capriccioli (People Editore, 176 pagine), un racconto vivido e sentito che riesce a farci toccare con mano il mondo del carcere. Quelle di Johnny Cash sono parole che riescono a sintetizzare alla perfezione la chiave del problema quando parliamo del carcere, un istituto che, almeno in Italia, non assolve quasi mai alla funzione di riabilitazione e di reinserimento nella società che la nostra costituzione prevede. Tre metri quadri ci racconta quattro anni di visite in carcere e ci aiuta a guardarlo dall’interno. Non si tratta di un libro teorico, né di un volume tecnico, ma di un vero e proprio racconto, uno spaccato della vita nelle carceri del Lazio. Alessandro Capriccioli è stato eletto consigliere regionale del Lazio il 4 marzo del 2018. Meno di due mesi dopo, il 2 maggio, ha effettuato la sua prima visita ispettiva in carcere insieme a Federica Delogu e Federica Salvati, che sarebbero state presenti anche in tutte le successive. Parlare di Tre metri quadri vuol dire allora viaggiare in tante, diverse, tipologie di istituto penitenziario.

Regina Coeli: un grumo di umanità dolente

Il viaggio inizia da Regina Coeli, tradizionalmente il carcere di Roma, una struttura nata come convento a metà del Seicento e convertito in carcere due secoli e mezzo dopo. Si trova al centro della città, a Trastevere. Capriccioli parla di un impatto spiazzante e sconvolgente, «un grumo di umanità dolente, più che una popolazione di temibili fuorilegge», in cui «le persone sono malvestite e hanno un aspetto trascurato e dimesso». «A Regina Coeli il colpo d’occhio è drammatico» ci racconta Capriccioli. «È un luogo molto antico che si traduce nell’essere molto vecchio, È palesemente e strutturalmente inadatto. Ammesso e non concesso che noi abbiamo ancora in mente per il futuro una società con il carcere, è palesemente incompatibile a livello strutturale con un’idea contemporanea di carcere: gli spazi sono ridotti, la possibilità di fare attività è frenata da limiti strutturali. È una struttura a Panopticon, frutto di un‘impostazione ingegneristica elaborata nell’Ottocento da alcuni studiosi come Jeremy Bentham, in cui i detenuti sono in celle che stanno su una colonna circolare, con un punto centrale con la guardiania. La filosofia alla base è che le persone sulla corona non sanno se l’unico guardiano in quel momento li sta osservano, e quindi diventa una forma di controllo piscologico. Che non funziona più in quel modo, ma l’impressione visiva è forte. È un luogo inadeguato, che andrebbe recuperato per farne un albergo, un museo. Ma non per ospitare le persone. Le celle sono anguste, come possono esserle quelle di un posto ricavato da un convento del Seicento».

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L’isolamento è il luogo in cui avvengono più suicidi

Viterbo: l’isolamento, luogo di alienazione e solitudine

La visita al carcere di Viterbo avviene dopo aver appreso la notizia che un detenuto di trentasei anni, Andrea Di Nino, si è suicidato in cella di isolamento. L’isolamento è quella misura che viene comminata quando si infrangono determinate regole e consiste nella separazione dagli altri detenuti, spostando la persona in una cella individuale ancora più spoglia e spartana delle altre.  Ma, da misura eccezionale, l’isolamento finisce per essere applicato molto frequentemente. «L’isolamento dovrebbe essere una misura estrema» ragiona Capriccioli. «Ormai è provato da mille studi: le conseguenze sono devastanti sulla psiche delle persone: è qualcosa che incide molto sul morale. Si dovrebbe usare in casi estremi, con grande parsimonia. Ma lo si usa più di quanto si dovrebbe. E a Viterbo, nel momento in cui sono andato io, c’era questa situazione per cui l’isolamento in alcune parti era obbligato per una serie di problemi che aveva quel carcere: persone venivano messe in isolamento perché avevano problemi psichici, perché non sapevano dove metterle, perché avevano avuto problemi con gli altri detenuti. L’isolamento dovrebbe essere una misura limitata nel tempo: ci si può mettere una persona un giorno, non si possono tenere persone isolate per settimane o per mesi. Come la storia insegna l’isolamento è il luogo in cui avvengono più suicidi, il luogo dell’alienazione della solitudine».

Il Cpr: detenuti senza aver fatto niente

Il viaggio di Capriccioli prosegue in quei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) che tecnicamente non sono nemmeno istituti penitenziari, ma strutture di trattenimento degli stranieri in condizione di irregolarità in attesa del loro rimpatrio nel Paese di origine. Ma al loro interno avviene una forma di privazione della libertà analoga a quella delle carceri, se non peggiore, perché le persone che si trovano al loro interno non hanno accesso alle tutele riservate a chi si trova in prigione. «Se il carcere è un luogo che dopo un po’ appare insensato, il Cpr è un posto che un senso non ce l’ha» ci spiega Capriccioli. «Le persone lì dentro sono dentute senza aver commesso nessun reato, hanno solo il problema di non avere i documenti in regola. Il Cpr di Ponte Galeria a Roma non è il peggior Cpr d’Italia. Ma ma è un luogo di una desolazione incredibile, in cui le persone vengono detenute senza aver commesso reato e non fanno niente dalla mattina alla sera. Aspettano nei prefabbricati con i letti di ferro, una tv appesa al muro, hanno uno spazio esterno in cui aspettano che passi il tempo per il rimpatrio.  Spesso ci arrivano dopo un’esperienza carceraria: scontano la pena e per essere espulsi fanno qualche settimana nel Cpr. È un posto del quale le persone che ci stanno faticano a comprendere il senso. Nel carcere c’è un minimo di accettazione, perché chi è in carcere sa che ha commesso un reato. Chi è nel Cpr si chiede: perché sto qua dentro?».

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Foto di A Roma Insieme, associazione di volontariato da trent’anni attiva a Roma affinchè nessun bambino varchi più la soglia di un carcere. I volontari di A Roma insieme trascorrono il sabato fuori dal carcere con i bambini e le bambine della sezione Nido di Rebibbia.

Il carcere femminile e qui bambini dietro le sbarre

Nella Casa circondariale femminile di Rebibbia sono recluse circa trecento donne, tra cui molte straniere. Ma la cosa dolorosa, ogni volta che si entra in un cercare femminile, è vedere la presenza dei bambini costretti a passare i primi anni della loro vita in prigione. «Il tema non riguarda solo i bambini, ma anche le donne incinte» ci fa notare Alessandro Capriccioli. «Qualche mese fa a Rebibbia una donna ha partorito assistita solo dalla compagna di cella, a sua volta incinta. Qualche giorno fa una donna ha perso il suo bambino in un carcere. C’è tutto un tema legato alla maternità che è qualcosa di devastante. La visione dei bambini che hanno l’asilo nido dentro la prigione è una vergogna per un paese civile. E la maggior parte dei casi non sono quelli di persone che vanno contenute ad ogni costo: spesso sono donne rom che stanno in carcere per cumuli di piccoli reati, come il portafoglio rubato nell’autobus. È incomprensibile l’esigenza della custodia su queste persone, che è modesta, debba prevalere sull’esigenza di assicurare a dei bambini cosi piccoli degli anni di vita decenti». Una soluzione alternativa ci sarebbe, ed è la possibilità, prevista dalla legge, di scontare la pena nelle cosiddette “case famiglia protette”. «La visione delle case famiglia protette in Italia è ancora ferma» ci spiega l’autore. «Ce ne sono due in Italia, una a Roma, La casa di Leda, e un’altra a Milano. Ci sono soldi stanziati nel bilancio di due anni fa che non sono stati ancora erogati perché manca il decreto attuativo di ripartizione tra le regioni».

Rebibbia: il carcere industriale e l’industria carceraria

Nel nuovo complesso di Rebibbia vivono circa milletrecento detenuti. Dentro il carcere sembra davvero di essere in mezzo a una città. È il carcere metropolitano, industriale. «Ci sono le attività, ci sono gli spazi» commenta Capriccioli, «Quindi dal punto di vista materiale sono strutture che funzionano meglio. Nel grande c’è una richiesta di attività, e più possibilità, rispetto ad altri posti, di formazione e quindi di reinserimento. Ma qui il punto diventa politico: non è neanche più il carcere industriale, questa diventa l’industria carceraria. Il carcere è un’industria. E in questi posti si vede in modo molto chiaro: c’è una parte di popolazione, dei nostri concittadini e concittadine di cui noi non riusciamo ad occuparci. è abbastanza banale dirlo, ma è vero, gran parte dei detenuti e delle detenute arrivano da determinati quartieri e ceti sociali. E noi abbiamo praticamente destinato queste persone a questa industria che si ciba di queste persone a cui abbiamo assegnato paradossalmente una collocazione sociale. È ovvio che andare a vedere un carcere come questo, organizzato, è rassicurante, perché si ha la garanzia che le persone che ci sono dentro abbiano la possibilità di passare il tempo in modo costruttivo. Dall’altra è una visione impressionante perché dà la rappresentazione plastica di quanto quel presidio sia un peridio sociale che abbiamo inventato, come se fosse una forma molto distorta di welfare, per cui c’è un bacino di popolazione che accede a questo tipo di servizio da parte dello Stato».

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Un’immagine dal film Fiore di Claudio Giovannesi

Casal del Marmo, e gli adolescenti come in Fiore

Una storia a parte è quella di Casal del Marmo, dove ragazzi e ragazze minorenni convivono con i cosiddetti “giovani adulti”, in due circuiti che tengono separati i maschi dalle femmine. E dove si assiste a innamoramenti a distanza, occhiate, bigliettini, fidanzamenti, come ci ha raccontato Claudio Giovannesi nel film Fiore del 2016. «Avevo visto il film prima di cominciare questo giro di vite» ci spiega l’autore. «Quando sono andato lì ho pensato subito che fosse una rappresentazione veritiera. Nel film viene stressato un elemento, quello dei rapporti tra le persone. Tra l’altro, è curioso dirlo per un posto del genere, la visita è piuttosto divertente. Lo è parlare con i ragazzi, con le ragazze, che sono in maggioranza rom, che sono molto sveglie, molto cresciute. Dietro a questo divertimento c’è un dramma, quello della dispersione scolastica, il fatto che ragazzi cosi giovani hanno già scelto quella squadra. C’è da riflettere sul fatto che perdiamo queste persone nel corso della loro vita. Non riusciamo a star loro dietro, a frenare la dispersione scolastica, e recuperarle, a tenerle in una prospettiva di crescita produttiva per la società». «Quel posto ha mille potenzialità lavorative, laboratori di pizza, di ceramica» continua. «Le attività sono diverse, ma credo che dovrebbero essere di più. Quella dovrebbe essere una scuola, dove le persone escono con delle competenze e da dove possano uscire, oltre che con una riflessione, con la possibilità di una vita diversa».

L’ergastolo, una pena mostruosa per chiunque

C’è una nova coscienza in Italia sul carcere, sempre più persone che chiedono che abbia una funzione rieducativa, pene più leggere, o la sua abolizione per essere sostituito da misure alternative. Dall’altro lato, quando succede il caso di cronaca nera, si invocano ergastoli, pene severe, si tende ad essere estremi nell’altro senso. «Sul tema ergastolo, delle pene pesanti di cui abbiamo visto un esempio nel caso dei fratelli Bianchi, c’è qualcuno che dice: io sono contro l’ergastolo, ma per certa gente no» ragiona Capriccioli. «Io però mi faccio questa domanda: perché facciamo questa riflessione? I fratelli Bianchi da che contesto vengono? Cosa abbiamo fatto per quel contesto? Quando ce ne siamo occupati? Parlo ovviamente della politica. Se vai ad Artena o a Colleferro ti rendi conto che quella è la punta di un iceberg. Che viene da territori che sono abbandonati, in cui la politica non riesce a proporre soluzioni, innovazione, possibilità. Ma noi non possiamo arrivare a commentare le cose sempre alla fine». «Sul tema della giustizia sostanziale che invochiamo quando ci sono questi crimini orribili dico che bisognerebbe conoscere, capire che cos’è un anno di carcere, e quindi che cosa sono 5 o 10 anni di carcere, per avere una misurazione diversa di quel tempo» aggiunge. «Il tempo che viviamo da fuori è molto diverso da come lo si vive dentro. Io credo che le carceri andrebbero aperte, che le persone dovrebbero conoscere. L’ergastolo è una pena mostruosa per chiunque. Tutto ciò nasce da un bias cognitivo per cui, se ti occupi delle vittime, significa che non ti devi occupare dei carnefici. Non è che le due cose sono incompatibili. Ci si può occupare delle vittime, e allo stesso tempo fare qualcosa di costruttivo per i criminali. Altrimenti si arriva a qualcosa che attiene al piano della vendetta e non della legge. Io mi rendo conto che è complicato, lo è se lo si guada dalla parte delle vittime. Ma mi permetto di dire che il punto di vista delle vittime non è l’unico che dobbiamo avere. Chiunque di noi, se ci accadesse qualcosa di brutto, penserebbe farsi giustizia da solo. Ma per fortuna c’è uno Stato che ce lo impedisce e che ci dice: è il tuo punto di vista e lo rispetto. Ma io ne ho un altro, quello della legge».

 

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Tre metri quadri. Quattro anni di visite in carcere

Alessandro Capriccioli

Tre metri quadri. Quattro anni di visite in carcere

People Editore

pp. 176 € 15,00

 

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