CASA, WELFARE, POVERTÀ. RIFUGIATI E INTEGRAZIONE, DALLA CARTA ALLA CARNE

A tre anni dalla Carta per l’Integrazione dei rifugiati, la seconda edizione del Report UNHCR fotografa un percorso che va arricchendosi di strumenti che puntano a entrare nel tessuto dei territori, dove l’accesso alla casa e al welfare e la povertà in aumento restano temi aperti

di Giorgio Marota

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Dalle parole ai fatti, dalla carta alla carne, affinché le cose messe nero su bianco possano davvero prendere colore ed entrare nel tessuto delle comunità alle quali vengono riferite. Nell’ultimo anno il percorso intrapreso con la Carta per l’Integrazione di Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, si è arricchito di contenuti ma anche di strumenti operativi. Come Spazio Comune, il programma che alcune delle città aderenti a questo manifesto hanno promosso e incentivato. Oltre a Bari, Milano, Napoli, Roma e Torino, recentemente sono salite a bordo Bologna e Brescia, formando una vera e propria rete di sette spazi in cui oggi sono disponibili numerosi servizi per l’integrazione. Su impulso dei comuni, che in questa visione rivestono un ruolo centrale e non soltanto di affiancamento, sono stati attivati due sottogruppi di lavoro tematici ai quali sta partecipando la maggioranza delle città aderenti: il primo sta lavorando sul supporto che le amministrazioni possono dare alle questure nelle procedure di rilascio e rinnovo della documentazione, come il permesso di soggiorno, mentre il secondo si sta occupando della stesura di una guida pratica per l’iscrizione anagrafica dei beneficiari di protezione internazionale. Proposte, idee e raccomandazioni, a cui contribuiscono anche gli atenei grazie al Manifesto dell’Università Inclusiva, finiranno presto sul tavolo del Ministero dell’Interno, oltre che su quello del Ministero del Lavoro per quanto riguarda la sfera delle politiche occupazionali.

Il secondo report UNHCR sulla Carta per l’integrazione

Nel frattempo, prosegue anche il lavoro di ricerca dell’agenzia delle Nazioni Unite tramite un rapporto, il secondo, sulle condizioni dei rifugiati nei territori dove la Carta è stata applicata. In queste tredici province risultano esserci oltre 108 mila persone con protezione internazionale o temporanea e richiedenti asilo, un numero pari al 36% del totale nazionale. Considerando solo la protezione, arriviamo a 89 mila. Roma, ovviamente, è la città capofila. Nella Capitale vivono 6.845 rifugiati, quasi il doppio dei 3.984 di Milano e sei volte tanto i 1.120 di Napoli. Qui possono contare su una protezione sussidiaria – la forma di tutela dedicata a chi rischia un danno grave (tortura, minaccia alla vita, violenza indiscriminata) in caso di ritorno nel proprio paese – ben 7.537 persone, con 9.918 beneficiari di protezione temporanea, 1.539 richiedenti asilo e un totale di 25.839 persone all’interno del sistema di protezione sulle 305.546 dei comuni aderenti.

Spazio Comune

«Numeri che raccontano quanto sia importante realizzare, in particolare nelle grandi città, un vero e proprio gioco di squadra sull’accoglienza», è il pensiero di Massimo Gnone, che per Unhcr ha curato il rapporto. Ed è proprio su questo tema che entra in gioco Spazio Comune, modello ispirato a precedenti esperienze di servizi in un unico hub. Ma in questa prospettiva il terzo settore non è abbandonato a sé stesso e neppure al semplice incarico di unico referente per l’assistenza. «A differenza degli altri casi qui c’è un ruolo di guida e di coordinamento dell’ente locale», ha spiegato, «il Comune in questi centri fa da catalizzatore, razionalizzando l’offerta». In alcune città sono nate delle vere e proprie strutture, a Roma invece si poteva già contare sul prezioso lavoro del SUAM, lo Sportello Unico per l’Accoglienza Migranti di Via Giovanni Mario Crescimbeni, una parallela di Via Labicana a pochi metri dal Colosseo, la cui offerta è stata notevolmente arricchita. Questi spazi generano reti solidali interne ed esterne. Interne perché in un unico luogo la persona in cerca di protezione usufruisce di tutti i servizi necessari, potendo contare su una mediazione linguistica e culturale, sulla presenza del referente del programma “Welcome” che la supporta nell’inclusione lavorativa, sul supporto della Asl per i servizi sanitari e su quello della Prefettura per la documentazione e gli eventuali ricongiungimenti. Esterna perché i vari spazi sono in connessione tra loro, condividendo esperienze e buone pratiche. «Il nostro obiettivo è che ci siano sempre più servizi e sempre più scambi, e che gli operatori siano ancora più formati», l’obiettivo esplicitato da Gnone. Per quanto riguarda il lavoro, il programma Welcome di Unhcr mette in relazione i migranti con le aziende tramite la piattaforma online “Welcome in one click”, alla quale hanno già aderito 130 realtà per un totale di 700 nuovi lavoratori beneficiari di protezione e richiedenti asilo. La logica è l’accompagnamento al welfare territoriale per evitare situazioni segreganti.

L’uscita dai progetti, la casa, l’accesso al welfare

A preoccupare maggiormente gli esperti è la situazione legata all’accesso all’abitare dopo l’accoglienza. «La fase di uscita dai progetti verso una situazione abitativa più o meno stabile è drammatica», ha aggiunto Gnone. «E lo è anche per le persone con un contratto di lavoro stabile o addirittura a tempo indeterminato a causa della diffidenza dei proprietari e dei fenomeni di discriminazione più o meno diffusi». Secondo le stime, un rifugiato su quattro ha avuto problemi abitativi nell’ultimo anno, indipendentemente dal tempo trascorso in Italia, e addirittura il 73% non ha mai avuto accesso a misure di welfare.

Cresce la povertà tra i rifugiati, anche rispetto alla popolazione straniera

I dati evidenziano poi un’altra criticità. Il divario sulla povertà tra la popolazione rifugiata e quella nativa, ma anche rispetto a quella straniera, è in netta crescita. Secondo una ricerca di Unhcr, sviluppata da un consorzio composto da Lattanzio KIBS e FIERI, il 43,5% dei rifugiati vive in povertà assoluta, mentre il 67% si colloca sotto la soglia della povertà relativa, cioè quella che prende come riferimento il 60% del reddito medio nazionale. Molte famiglie sopravvivono con un reddito inferiore a 800 euro al mese. Ancora più significativa è la condizione di deprivazione materiale e sociale, che riguarda il 26% del campione, penalizzando le donne ancora più degli uomini. La mancanza di reti di sostegno e l’accesso limitato ai servizi sono due cause che acuiscono il problema, mentre l’esclusione sociale è forse la conseguenza più evidente di tutto ciò. Eppure non è la volontà dei rifugiati a mancare. L’84% del campione ha sostenuto infatti di aver svolto almeno un lavoro retribuito da quando è in Italia; tuttavia, solo una persona su cinque (21%) oggi risulta avere un impiego stabile, in particolare nei settori a bassa qualificazione come l’edilizia, la logistica, l’agricoltura e la ristorazione. La scarsa confidenza con la lingua, infine, non aiuta. Più della metà ha una competenza medio-bassa e tra coloro che vivono in Italia da 2 a 5 anni la percentuale sale al 62%. Solo il 22% si considera in grado di padroneggiare la lingua, mentre il 18% dichiara di non conoscerla affatto. E ancora: il 45% degli intervistati – quasi uno su due – ha subito episodi discriminatori, legati alla provenienza, al colore della pelle, alla religione o al suo status giuridico, ma solo il 17% ha sporto denuncia. Tutti gli altri hanno evitato di rivolgersi alle autorità competenti per timore di ritorsioni, per mancanza di informazioni o per una sfiducia generale nelle istituzioni. Quando ci si sente ai margini, i diritti sembrano utopie.

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