CASE FAMIGLIA. COSA SONO E COSA FANNO: FACCIAMO CHIAREZZA

L'Italia è il Paese europeo con il minor numero di minori sottratti alle famiglie. Come si finanziano e quali regole hanno le strutture che li accolgono

Recenti fatti di cronaca hanno sollevato una particolare attenzione mediatica sulle case famiglia, cioè quelle strutture pensate per accogliere i minori che, in determinate circostanze, vengono allontanati dalle famiglie naturali. Ma cosa sono le casa famiglia, chi ospitano, come sono regolamentate e perché c’è il rischio che questo termine venga abusato? Proviamo a chiarire alcuni punti.

LE TIPOLOGIE. Iniziamo col dire che ad aver introdotto questa tipologia di servizi residenziali è stata la stessa legge italiana che trova nella disposizione 149/2001 il quadro normativo più recente (in tema di adozione e affido di minori). La norma prevede diversi tipi di comunità in grado di ospitare minori in stato di bisogno: le comunità educative, caratterizzate dalla presenza di educatori professionali, che accompagnano i minori pianificando il loro percorso formativo; le comunità familiari (meglio conosciute come Case Famiglia) in cui vi è la presenza stabile di uno o più adulti, che accolgono i minori mediante l’affido temporaneo; le case madri-figli, che ospitano nuclei monoparentali (madre-bambino); le comunità alloggio e appartamenti destinate ad adolescenti e maggiorenni che sperimentano percorsi di semi-autonomia e autonomia; le case multiutenza e i servizi di pronta accoglienza. Parlare di “case famiglia” è, quindi, riduttivo rispetto alla varietà di questi servizi distribuiti su tutto il territorio.

QUANTE SONO E QUANTI MINORI OSPITANO. I dati più recenti del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, soggetto competente in materia, ci parlano di circa 3.000 comunità (sia educative che familiari) suddivise tra le varie regioni italiane. Al 31 Dicembre 2016 (citando il “Quaderno della ricerca sociale n.42” che trovate allegato in fondo all’articolo) il numero dei minorenni allontanati dalle famiglie è in diminuzione rispetto agli anni precedenti: sono circa 26.000 i bambini/adolescenti che nel nostro Paese vengono allontanati dai nuclei familiari d’origine per essere collocati nei diversi servizi (12.000 in comunità e i restanti in affido familiare).

case famiglia
Liviana Marelli, del Cnca

«Rappresentano il 2,7 per mille dei minori presenti in Italia, è la percentuale più bassa tra gli Stati europei sociologicamente simili a noi» – spiega Liviana Marelli responsabile Infanzia del Coordinamento nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA). «Basti pensare che la Francia, nella fascia 0-17 arriva al 9 per mille di minori allontanati. Non è detto che questo dato sia confortante, perché potrebbe voler dire, o che abbiamo uno Stato che lavora costantemente nella prevenzione e nel sostegno delle famiglie o, l’esatto opposto, in cui c’è un welfare carente che di fatto abbandona i minori in stato di bisogno. Su questo punto andrebbe avviata una riflessione».

In che circostanza un minore viene allontanato dalla propria famiglia?
«Sempre riferendoci ai dati del 2016, possiamo notare come il 23,1% degli allontanamenti avviene per incapacità educativa, seguito dalla trascuratezza materiale e affettiva del minore (14,4%) e dalla violenza domestica in famiglia (12,1%). Tra le altre motivazioni compaiono anche i problemi di dipendenza di uno o entrambi i genitori, abuso e sfruttamento sessuale del minore, problemi giudiziari del padre o della madre. La legge, inoltre, proibisce che un minore possa essere allontanato a causa delle condizioni di povertà in cui versa la famiglia (può essere una delle cause concorrenti alla decisione, ma non può essere quella esclusiva).»

Una volta entrato in comunità, il minore non ha più contatti con la famiglia di origine? Viene adottato?
«Anche qui la legge è chiara: il minore deve essere allontanato “nel suo primario interesse” per permettere di crescere e di avere una possibilità che la sua famiglia, in quel momento, non è in grado di dargli. Ma allo stesso tempo è necessario un lavoro costante degli educatori con le famiglie d’origine (a meno che il tribunale dei minorenni non fissi dei limiti particolari). Gli educatori svolgono funzioni genitoriali, ma non sostituiscono i genitori. L’affido è principalmente temporaneo e solo il 5% dei minori allontanati risulta adottabile. Il problema che oggi si pongono le comunità è l’esatto contrario: compiuti 18 anni il Comune non ha più alcun obbligo nei confronti del ragazzo, che pur non essendo ancora autonomo si ritrova fuori dalla comunità, senza alcun sostegno. Fortunatamente l’Italia ha ottenuto un fondo – ancora irrisorio – per dare a questi giovani la possibilità di sperimentare dei percorsi autonomia e non rischiare di rientrare nel circuito dell’assistenzialismo, questa volta da adulti.»

Chi stabilisce le procedure di inserimento dei minori, gli standard qualitativi, o le qualifiche del personale di queste strutture?
«La riforma del titolo V ha di fatto rimandato alle singole Regioni la titolarità esclusiva in maniera socio-educativa e quindi la possibilità di stabilire ciascuna le proprie regole. Questo ha permesso ad ogni ente locale di decidere i propri standard gestionali, come devono essere fatte le case, il rapporto che deve instaurarsi da educatore e minore e la supervisione prevista per ogni servizio. Tutto ciò ha generato negli anni confusione e discriminazione tra regione e regione. In più siamo davanti ad una forte carenza di assistenti sociali: la legge ne prevede uno ogni 5.000 abitanti, mentre ci sono territori in cui è presente un solo assistente sociale per 8.000 abitanti, assunto per 8 ore alla settimana».

 

Chi paga le “rette” di queste comunità e chi controlla i bilanci?
«Anche qui il termine “retta” è improprio, infatti dovremmo parlare di un “contributo spesa” composto da diverse voci e che viene erogato da ogni singolo Comune. La media dei contributi che percepisce una comunità educativa è di 70-120 euro al giorno, mentre le comunità familiari si attestano intorno ai 60-70 euro. I bilanci dei Comuni sono pubblici e consultabili liberamente. Quando si afferma che deve essere lo Stato a stabilire l’ammontare di tali contributi, si dice una falsità, proprio perché ogni Regione, regolamentandosi da sé, ha dei costi diversi riferiti ai servizi che offre. Alcuni elementi che concorrono al giusto prezzo sono: il costo del lavoro del personale, i costi della gestione, i percorsi formativi individuali di ogni minore, le vacanze eccetera. Occorre, però, sottolineare come ci siano Comuni che ritardano i pagamenti alle di oltre 36 mesi e nei quali richiedere una diagnosi terapeutica per un ragazzo accolto comporta un’attesa di 13 mesi.»

case famiglia
Il manifesto #cinquebuoneragioni per accogliere i bambini è del 2015

È necessario un regolamento nazionale che metta ordine alla materia?
«Esiste già, ed è stato approvato il 14 dicembre 2017 da un tavolo tecnico costituito dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, dal Ministero della Giustizia, dalla Conferenza Regioni e Province autonome, dall’Ancie dalle diverse associazioni operanti nell’accoglienza di minori. Il documento “Linee di indirizzo per l’accoglienza nei servizi residenziali per minorenni” , pur contenendo una serie di disposizioni che volevano armonizzare i regolamenti interni di ogni ente locale, ad oggi non è stato recepito da alcuna Regione. Ognuna ha preferito mantenere la sua autonomia e non l’ha recepito perché in molti casi fa comodo continuare a lamentarsi. Ad ogni modo queste raccomandazioni rappresentano un punto di partenza importante per tutelare integralmente il diritto dei minorenni e delle famiglie fragili da cui provengono. Le linee insistono sulla qualità del processo di accoglienza, sul mantenere il rapporto con la famiglia, sullo standard di qualità che ogni struttura deve mantenere e mette in luce anche i casi in cui una comunità, non rispettando le regole, va chiusa. Se mettiamo insieme queste linee di indirizzo insieme alle “Linee di indirizzo sulle famiglie vulnerabili”, e alle “Linee di indirizzo sull’affido familiare”, abbiamo una cornice che ci dice come lo Stato dovrebbe potenziare interventi a favore delle famiglie in difficoltà».

Il CNCA insieme ad altre associazioni che operano nell’accoglienza di minori in stato di bisogno, nel 2015 ha lanciato il manifesto “#5buoneragioni per accogliere i bambini che vanno protetti” (allegato qui sotto) per formare opinione pubblica e mezzi di informazione ad un uso corretto dei termini riguardanti questo tema.

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Alleghiamo qui la sintesi dell’indagine campionaria su Affidamenti familiari e collocamenti in case famiglia e comunità: Quaderno della ricerca sociale n.42

Qui invece  in testo del manifesto #5buoneragioni per accogliere i bambini che vanno protetti: Manifesto #5buoneragioni

Se avete correzioni o suggerimenti da proporci, scrivete a comunicazionecsv@csvlazio.org

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