
PALESTINA E INFORMAZIONE, MINEO: «UNO STERMINIO CHE OBBLIGA A MOBILITARSI»
Anas Al-Sharif e Mariam Abu Dagga sono solo due dei circa 250 giornalisti e giornaliste palestinesi uccisi dal 7 ottobre 2023 a Gaza. È stato dedicato soprattutto a loro il dibattito su informazione italiana e Palestina, al Falastin Festival. Al Kahlout: «Pensavamo che i giornalisti occidentali fossero esempio di libertà e democrazia, ma i cronisti palestinesi si sono ritrovati soli. Parlare del genocidio di Gaza è una linea rossa che nessuno vuole oltrepassare»
16 Settembre 2025
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«Se queste parole vi giungono, sappiate che Israele è riuscito a uccidermi e a mettere a tacere la mia voce». Così scriveva, poche ore prima di morire, il giornalista palestinese Anas Al-Sharif, corrispondente di Al Jazeera. Il 10 agosto è stato ucciso insieme ad altri tre giornalisti, in un attacco aereo dell’Idf contro la sua tenda, nei pressi dell’ospedale Al-Shifa di Gaza. «Ho vissuto il dolore in tutte le sue forme, ho assaporato la sofferenza e la perdita più e più volte. Eppure, mai per un giorno ho esitato a dire la verità così com’è, senza falsificazioni o distorsioni, sperando che Dio fosse testimone di coloro che sono rimasti in silenzio, di coloro che hanno accettato la nostra uccisione, di coloro che hanno soffocato il nostro respiro, i cui cuori sono rimasti insensibili ai resti dei nostri bambini e delle nostre donne, e che non sono riusciti a fermare il massacro che il nostro popolo ha sopportato per oltre un anno e mezzo». Anche Mariam Abu Dagga, giornalista freelance e corrispondente per varie testate, tra cui l’Associated Press, è stata uccisa, il 25 agosto scorso, insieme a quattro colleghi, durante un raid aereo sull’ospedale Nasser di Khan Younis, dove si recava regolarmente per raccontare le storie dei bambini di Gaza. «Non ho mai esitato a trasmettere la verità così com’è, sperando che Dio fosse testimone di chi è rimasto in silenzio e di chi ha soffocato il nostro respiro», ha scritto in una lettera indirizzata al figlio Ghaith, da pubblicare in caso di morte.

Bassam Saleh: «Per capire cosa succede in Palestina non si può partire dal 7 ottobre»
Anas Al-Sharif e Mariam Abu Dagga sono solo due dei circa 250 giornalisti e giornaliste palestinesi uccisi dal 7 ottobre 2023 a Gaza. E soprattutto a loro – «gli occhi e le orecchie del mondo intero» secondo l’Onu – che è stato dedicato il dibattito L’informazione italiana e la Palestina, al Falastin Festival della cultura palestinese. «L’informazione è verità, è il racconto della realtà del popolo palestinese che da più di 100 anni lotta per i propri diritti negati, in particolare il diritto all’autodeterminazione», ha affermato in apertura dei lavori il giornalista Bassam Saleh, residente dal 1970 in Italia dove ha fondato numerose associazioni e comitati di solidarietà per il popolo palestinese. «Se i mass media non presentano l’origine dei problemi, non è possibile capire cosa accade oggi. Tutti parlano del 7 ottobre come se tutto fosse partito da lì: come se non ci fosse mai stata l’occupazione israeliana e Gaza non fosse sotto assedio da 17 anni. È qui lo spartiacque tra chi vuole spiegare cosa succede in Palestina e chi si concentra solo sugli eventi successivi al 7 ottobre».
Safwat Al Kahlout: «A Gaza i giornalisti lavorano senza corrente elettrica, senza cibo e senza acqua potabile»
«Dopo il 7 ottobre il giornalismo è morto fuori da Gaza, ma è rinato dentro Gaza», ha detto Safwat Al Kahlout, giornalista e producer palestinese di Al Jazeera, che ha seguito tutte le ultime cinque guerre Israele-Gaza, compresa quella iniziata nel 2023. «Pensavamo che i giornalisti occidentali fossero un esempio di libertà e democrazia, ma dopo il 7 ottobre i cronisti palestinesi si sono ritrovati da soli, abbandonati dal mondo intero, soprattutto dal mondo occidentale. Si può parlare di Putin o di qualsiasi altro argomento», ha denunciato il giornalista, che dall’aprile 2024 vive in Italia con la sua famiglia, «ma parlare del genocidio di Gaza è una linea rossa che nessuno vuole oltrepassare. Intanto i palestinesi vengono uccisi ogni giorno e in Italia non si ha nemmeno il coraggio di ammettere che tutto questo si chiama genocidio». Al Kahlout si è poi soffermato sulla situazione dei reporter rimasti nella Striscia. «I colleghi hanno dovuto trasformarsi in tecnici: riparano telecamere, sistemano i cellulari», ha raccontato. «Da due anni A Gaza non entra nulla. Lavorano senza corrente elettrica, senza Internet, senza cibo e senza acqua potabile. Hanno accettato questa sfida, perché sanno che i colleghi dall’altra parte del mondo aspettano le notizie da Gaza. Svolgono il proprio lavoro in condizioni che nessun giornalista ha mai vissuto prima, nemmeno nei peggiori conflitti. Continuare a raccontare malgrado la paura, la fame, la mancanza di attrezzature è un vero miracolo. Il giornalismo dentro Gaza è una cosa diversa da qualsiasi tipo di giornalismo».
Corradino Mineo: «Dal 1971 non ho mai visto niente di simile»
Di una situazione mai vista prima ha parlato anche Corradino Mineo, storico volto della televisione pubblica e per sei anni direttore di Rai News 24. «Faccio il giornalista dal 1971 e ho visto guerre e colpi di Stato, il genocidio dei Tutsi, il tiro a segno su Sarajevo, la strage di Srebrenica. Ma francamente non ho mai visto, e non credo vedrò mai, qualcosa come ciò che sta accadendo oggi in Palestina», ha spiegato. «Israele dice di fare la guerra ad Hamas, ma in realtà ha ucciso oltre 20mila bambini a Gaza, secondo le cifre riportate dai media occidentali e non dal Ministero della Salute di Hamas, come si tende sempre a dire per screditare le fonti». Mineo ha poi evidenziato l’uso della fame come arma di guerra. «È un crimine orrendo», ha rimarcato. «Israele colpisce i medici, gli ospedali, gli operatori sanitari, i giornalisti». Per l’ex direttore di Rai News 24, lo stesso termine “guerra” è inadeguato a spiegare quanto sta accadendo a Gaza. «È uno sterminio, un genocidio. È il tentativo di deportazione di un popolo. L’obiettivo è annientare 7 milioni e mezzo di palestinesi e controllare l’intera regione mediorientale dal Mar Rosso al Mar Caspio. Questa situazione obbliga l’informazione — per prima — e poi tutto il mondo, gli Stati come i cittadini, a mobilitarsi. Se il mondo smetterà di essere regolato dall’ONU — con tutti i suoi limiti — e si affiderà solo alla legge del più forte, resterà solo la barbarie». Concludendo, Mineo ha ricordato che «non si può definire antisemita chi critica Netanyahu. C’è un mandato di arresto del Tribunale Penale Internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità e le stesse Nazioni Unite hanno dichiarato che la fame a Gaza è fame provocata».
Gloria Napolitano (Tikkun): «Strumentale l’equiparazione tra antisemitismo e antisionismo»
All’incontro ha preso parte anche Gloria Napolitano del collettivo ebraico anticoloniale e antisionista Tikkun. «La nostra battaglia principale è quella contro l’equiparazione strumentale tra antisemitismo e antisionismo, spesso proposta in modo cieco e superficiale», ha rimarcato. «In Europa e nel mondo l’antisemitismo è un problema reale, ma non è accettabile che le destre storiche, le stesse che oggi sono al governo e che nascono dalle ceneri dell’Msi, si lavino le mani dei genocidi passati, con i quali non hanno mai fatto i conti, ignorando al tempo stesso il genocidio dei palestinesi». Secondo l’attivista, i media mainstream italiani non fanno altro che amplificare, in prima pagina, la propaganda israeliana, «mentre i reportage dei giornalisti palestinesi, che svolgono un lavoro puntuale sul campo, vengono relegati alle ultime pagine, quando sono presenti», ha concluso.
