
FEMMINICIDI, LEDA KENNY: «SERVE UNA NARRAZIONE CHE RACCONTI LA SISTEMATICITÀ DEL FENOMENO»
Con Barbara Leda Kenny, caporedattrice di inGenere.it e curatrice di inQuiete Festival, sulla violenza di genere e il racconto dei femminicidi sui media mainstream, che, nella maggior parte dei casi, non riesce a tenere insieme il particolare con il generale. «Sulla violenza un racconto ancora molto lontano dall’essere consapevole»
17 Novembre 2025
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Insieme alla società cambia anche il femminismo e sono sempre più le donne che portano il proprio punto di vista sulla scena letteraria, costruendo una presenza nella società. Eppure mancano ancora dati solidi e aggiornati sulla violenza di genere e il racconto dei femminicidi sui media mainstream nella maggior parte dei casi non riesce a tenere insieme il particolare con il generale. Ne parliamo con a Barbara L. Kenny caporedattrice di inGenere.it e curatrice di inQuiete Festival di scrittrici a Roma, la cui nona edizione si è svolta dal 7 al 12 ottobre scorso nel quartiere romano del Pigneto.
Perché oggi è importante leggere e interpretare il mondo in chiave di genere?
«Per molti anni della vita delle donne abbiamo saputo quasi solo quello che raccontavano gli uomini. Oggi si sono moltiplicate le voci, sono sempre più, infatti, le donne che scrivono e che costruiscono una loro presenza nella scena letteraria capace di dare il loro punto di vista sulla società e sul presente, ma abbiamo anche fatto un lavoro di tessitura costruendo un filo che lega le scrittrici di oggi a quelle del passato, che ne recupera le opere e le rimette a disposizione del pubblico. Credo che questa doppia spinta – una orizzontale (le scrittrici del presente) e una verticale (le scrittrici del passato) – siano tra loro collegate e ci raccontino del desiderio delle donne di autorappresentarsi».

inGenere è nato dall’iniziativa di un gruppo di economiste: come mai avete scelto di focalizzarvi proprio sull’economia per parlare di disuguaglianze di genere?
«inGenere è figlia del fastidio: il fastidio di non vedere mai donne interpellate per parlare di politica economica e di politiche economiche. Come se questo argomento fosse appannaggio degli uomini, anzi di un piccolo gruppo di uomini, sempre gli stessi. L’assenza delle donne, anzi delle economiste femministe, dal dibattito pubblico aveva delle conseguenze importanti: per esempio quella di non parlare mai degli effetti delle scelte dei governi sulle donne. Quindi inGenere nasce così, da un moto di orgoglio: non ci date spazio, ma noi quello spazio lo costruiamo. Ed in effetti, quasi venti anni dopo possiamo dire che inGenere è un luogo in cui si produce un dibattito pubblico intorno alle politiche anche economiche».
Come è cambiato il femminismo oggi e che definizione suggerirebbe?
«Il femminismo cambia insieme alle donne e alla società, per me è un percorso di libertà che parte dalle donne ma arrivare a tutta la società. Oggi il femminismo è sicuramente intersezionale, capace quindi di vedere e farsi carico di come le disuguaglianze sociali si sommano e si intersecano. È antirazzista e non si presta alla strumentalizzazione dei corpi delle donne per politiche repressive e xenofobe ed è alleato dei movimenti Lgbtqia+, riconoscendo la matrice patriarcale di tutte le discriminazioni di genere. Infine è anticapitalista: difficilmente cambieranno i rapporti di potere tra uomini e donne se non cambia anche l’ordine economico».
Cosa non funziona nella narrazione mainstream dei femminicidi e, soprattutto, come andrebbe cambiata?
«Come prima cosa dobbiamo dirci che è un po’ cambiata e in meglio, per esempio già il fatto che sia entrato nel linguaggio comune il termine femminicidio è un indicatore. Ma ancora troppo spesso le narrazioni mediatiche stabiliscono nessi causali tra cose che hanno fatto le vittime – «lo ha lasciato», «lo ha esasperato» – e il fatto che siano state uccise, portando il lettore o la lettrice a empatizzare con l’uomo violento. Oppure incontriamo il racconto dell’aggressore: Filippo Turetta che faceva i biscotti per Giulia Cecchettin o l’imprenditore di successo che vende il vino più pregiato d’Italia o ancora Ciro Grillo che aspetta un figlio, tutti elementi che vengono usati per avvicinare il pubblico all’assassino. In questo modo le storie sono tutte pubbliche ma allo stesso tempo private, nel senso di circoscritte alle persone protagoniste: tutti quei dettagli infatti, ci impediscono di avere una visione ampia, d’insieme. Servirebbe, invece, una narrazione che invece racconti la sistematicità del fenomeno, e che ogni volta che parla di violenza parli anche dei Centri antiviolenza, del numero antiviolenza, delle statistiche. Prendendo posizione senza se e senza ma dalla parte delle donne».
Qualche settimana fa la notizia del femminicidio di Pamela Gianini, uccisa a coltellate dal compagno, è rimbalzata in maniera virale sui social e sul web, accompagnata da molte foto e dettagli sulla sua vita. Anche i femminicidi sono diventati una forma di storytelling, con vittime “belle”, giovani e acchiappaclick, e altre più “ordinarie” quindi meno interessanti e notiziabili?
«Secondo me non esistono vittime migliori di altre o più importanti di altre. Ma quando le vittime sono giovani, belle, bianche si alza l’attenzione: sono donne che attivano più empatia perché rappresentano le figlie, le sorelle, le amiche, sono le ragazze della porta accanto. Per questi stessi motivi rappresentano l’archetipo della vittima “pura”. Questa narrazione è la stessa che rende tutte le altre donne in qualche modo responsabili della violenza subita: per quello che hanno detto, per come si sono comportate, per quello che hanno o non hanno fatto. In entrambi i casi abbiamo un problema su come raccontiamo la violenza, un racconto ancora molto lontano dall’essere consapevole».
Quanto i dati attualmente disponibili ci aiutano o ci ostacolano nella comprensione di questo fenomeno?
«I dati sono parziali, non univoci, difficili e dispendiosi da costruire. Nel caso dei femminicidi manca un database istituzionale e i dati prodotti dal movimento femminista sono ricostruiti dalle cronache. Per la violenza maschile sulle donne abbiamo moltissimo sommerso, difficile da misurare se non con indagini impegnative e costose che richiedono quindi volontà e impegno istituzionale. Insomma, abbiamo dati risalenti al 2007 aggiornati in parte nel 2014, e poi il vuoto».
Qual è stato il filo conduttore e le novità della nova edizione del Festival InQuiete che si è tenuto lo scorso ottobre a Roma?
«Il Festival ha riproposto i suoi format storici: i ritratti di signora in cui scrittrici del presente raccontano scrittrici del passato, i talk e i monologhi, i laboratori di pratiche femministe e la programmazione dedicata a bambini e bambine. Le novità di quest’anno hanno riguardato le mattine del sabato e della domenica con la rassegna “Strumenti” pensata per affrontare i dibattiti che attraversano il femminismo, quindi incontri più legati all’analisi che alle narrazioni. E abbiamo avuto anche un incontro dedicato alla Posta del cuore femminista su relazioni ed economia, in cui provare a esplorare la dimensione materiale delle relazioni di coppia».
Immagine di copertina Eye Speak






