
GLOBAL SUMUD FLOTILLA: PERCHÉ È STATA UNA MISSIONE RIVOLUZIONARIA
Quella della Global Sumud Flotilla potrebbe sembrare una sconfitta, ma è una vittoria. Abbiamo parlato con chi su quelle barche c’è stato per capire perché resterà nella storia. Paolo De Montis: «La Flotilla rappresentava l’Italia. Non era un partito, non era un sindacato: era il vicino di casa, mia suocera, le mie figlie. I volontari delle associazioni. Una platea enorme»
09 Ottobre 2025
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La Global Sumud Flotilla, la missione partita ad agosto scorso da alcuni porti del Mediterraneo per portare aiuti umanitari a Gaza, è stata fermata. Una prima volta tra l’1 e il 3 ottobre. Una seconda volta l’8 ottobre, quando una seconda flotta di 9 navi, partita in un secondo momento, è stata fermata a circa 120 miglia nautiche dalla costa della Striscia. Ma la Flotilla è qualcosa che non si può fermare. La Flotilla continuerà. E ormai fa parte di tutti noi, ha con sé un’enorme flotta di terra che si è riversata nelle piazze. A qualche giorno dai fatti che ci hanno tenuto con il fiato in sospeso, e su cui è stato scritto di tutto, da diversi punti di vista, è il caso di fermarsi a riflettere. Di capire perché l’esperienza della Global Sumud Flotilla sia stata qualcosa di rivoluzionario, qualcosa che verrà raccontata nei libri di Storia. Quegli aiuti, a Gaza, non sono mai arrivati. Ma è arrivata in tutto il mondo la luce dei riflettori sulla Palestina. Si è resa evidente la posizione dei governi, si è creata, tra l’opinione pubblica, tra il popolo, un’onda lunga che sarà difficile fermare. La Flotilla è stata fermata. Ma la Flotilla ha vinto.

La Flotilla era tutta l’Italia
Abbiamo deciso di parlarne con chi c’era davvero su una di quelle navi, che ha navigato per 18 giorni, ed è stato nelle prigioni israeliane. È Paolo De Montis, sindacalista, da tempo impegnato sulla questione palestinese, che era sulla barca Seulle. A cui, come prima cosa, abbiamo chiesto se chi era su quelle barche si è davvero reso conto di essere nel mezzo di qualcosa di storico e quando. «Ce ne siamo resi conto il 22 ottobre, Quando abbiamo visto le immagini della manifestazione intorno a Stazione Termini» ci ha risposto. «Essendo in un sindacato, il metro per capire ce l’ho: mi accorgo quando una manifestazione è grossa. E a memoria, una piazza così non l’avevo mai vista. Lì ho avuto la percezione, rispetto a quando siamo partiti, che fosse successo qualcosa. Mi sono reso conto che qui c’era una portata storica. Me ne sono reso conto dalle interviste che ci chiedevano, dai video che postavo. Vedevo un interesse enorme. In realtà la Flotilla rappresentava l’Italia. Non era un partito, non era un sindacato: era il vicino di casa, mia suocera, le mie figlie. I volontari delle associazioni. Una platea enorme».
Il vaso di Pandora che volevano tenere chiuso è esploso
Ma con che speranze era partita la flotta? C’era davvero il pensiero di poter arrivare a Gaza e consegnare gli aiuti – vista anche l’esperienza della Global March To Gaza di giugno – o c’era solo l’idea di fare un grande azione politica? «Io sapevo, ma era solo una mia idea, che a Gaza Israele non ci avrebbe mai fatto mettere un piede a terra» ci risponde Paolo. «La speranza era che a un certo punto, e basta vedere i giornali prima e dopo la nostra partenza, i riflettori si sarebbero accessi sulla questione palestinese in modo più democratico. Fino a poco prima sembrava che, se difendevi la Palestina, difendevi Hamas. Che è una grande idiozia. Questo vaso che tutti i governi occidentali cercavano di tenere chiuso alla fine è esploso. Le manifestazioni ci sono state, non solo in Italia. La protesta si è allagata. Siamo arrivati a 153 paesi su 198 che hanno riconosciuto lo Stato di Palestina». Tra cui manca ancora l’Italia. «Come dice Crozza, i Paesi sottosviluppati non l’hanno ancora riconosciuta» scherza Paolo. «Non riescono a capire che proprio lì sta la soluzione della questione palestinese» ragiona poi. «Se riconosci la Palestina come Stato, in automatico ha un potere in più per essere difesa».
Una tensione costante
Abbiamo provato a immaginare quali potevano essere i sentimenti dell’equipaggio, le loro emozioni alla partenza, e poi man mano che vi avvicinavate. C’era paura? O che cos’altro? «Quello che ci aspettavamo a Gaza, o nelle sue vicinanze, lo avevamo preventivato» ci svela Paolo De Montis. «Non avevamo preventivato che ci sarebbe stato addirittura il bombardamento davanti a Creta, a 400, 450 miglia nautiche, circa 700, 800 chilometri da Gaza. Lì è iniziata qualche tensione. Paura no, ma una tensione costante: soprattutto quando si avvicinava la notte, e vedevi i droni sopra la tua testa, cominciavi a percepire in maniera più concreta quello che sarebbe potuto accadere. Siamo andati avanti. A Creta qualcuno è sceso. Rispetto molto chi è sceso: se uno non se la sente è giusto così».

L’equipaggio della Flotilla torna vincitore
Eppure c’è ancora di chi parla della Global Sumud Flotilla come di un fallimento, Quando è stata una vittoria. «Il nostro sacrificio, nel senso di rischio e di sofferenza, il fatto di aver portato un milione di persone in piazza, il 22 settembre, in 81 città italiane, non lo considerano una vittoria?» si chiede De Montis. «Si è cominciato a parlare di pace dopo aver portato in piazza milioni di persone. Come si fa a dire che è un insuccesso? Ognuno se la gioca come gli pare. Io mi sento un vincitore. Già il fatto che siamo riusciti ad accendere i riflettori su Gaza, che c’è stata una proposta di pace, che non mi piace, ma questo lo dobbiamo far decidere ai palestinesi. Quando siamo partiti non si parlava di alcun piano di pace. Abbiamo messo in difficoltà tutti quelli che facevano finta di niente, abbiamo convinto molte persone che prima erano pro Israele quanto meno a dire “non saremo filopalestinesi ma Netanyahu deve essere fermato”. Mentre nelle guerre i civili che muoiono sono un effetto collaterale, questa è l’unica guerra in cui l’obiettivo è proprio uccidere i civili. L’hanno dichiarato gli stessi israeliani». Quella della Flotilla è una rivoluzione perché ha cambiato il modo di agire. Un’azione che è partita dal basso, da chi ha deciso di fare, da solo, quello che non stavano facendo i governi. «È stato il più grande movimento rivoluzionario» commenta Paolo. «Ha rotto i tabù. Ha rotto i muri, ha coinvolto l’intero Paese».
Ha coinvolto l’intero Paese, ma non chi quel Paese doveva proteggerlo. In tutta questa storia non c’è stato l’appoggio del governo, la protezione e il supporto che uno Stato dovrebbe dare ai propri cittadini, come spiega De Montis: «L’unico che ha dimostrato un po’ di intelligenza, in tutto questo, è stato il Ministro della Difesa Crosetto, anche se non sono d’accordo con la sua visione politica. Vi rendete conto? Esco da un carcere israeliano, mi mettono in mano solo un passaporto e un pigiamino e delle ciabatte di plastica, ci fanno uscire così. Arrivo ad Atene e tu, governo, mi dici: “sono affari tuoi”. Invece prima mi devi far rientrare, poi mi chiedi i soldi del biglietto se non sei d’accordo con quello che ho fatto. I governi dovrebbero tutelare i loro cittadini. E avrebbero fatto una figura meno barbina di quella che hanno fatto. Ma mi lasci lì e non mi dai nessun supporto. Visto che hai fatto voli di Stato per altri personaggi, che messaggi mandi?» Come sapete, è stata la Turchia a pagare il viaggio di ritorno. «Non solo, ci ha pagato il cibo, ci ha vestiti, ci ha detto di levarci quella roba israeliana, ci ha dato le scarpe le felpe, la kefiah e i giubbotti» racconta Paolo.
Non ragioniam di lor ma guarda e passa
«Ci hanno preso in giro» commenta Paolo. «Ma che effetto hanno ottenuto? Le masse hanno detto: state dicendo tante scemenze, noi crediamo alla Flotilla. Qualcuno ha detto, “sono andati là in barca, si sono divertiti”. Sentite: io sono stato 18 giorni in mare aperto. Sono stato nelle carceri israeliane. Ma di cosa stiamo parlando? Abbiamo rischiato la pelle. Credo che come diceva il Sommo Poeta, “non ragioniam di lor ma guarda e passa”. Invece di dare responsi politici hanno fatto questo. Ancora oggi l’Italia e l’Europa non sono in nessun piano di pace. Nessun portavoce dell’UE sta in quel tavolo».
L’esperienza nel carcere
In quel carcere, Paolo De Montis c’è stato davvero. E non è stato facile, già a partite dal trattamento della polizia nel porto. «Ci hanno fatto stare a carponi, inginocchiati, fino a farci sbattere la testa per terra» racconta. «Ci hanno malmenati: a un ragazzo turco è stato rotto un braccio. L’altra esperienza tremenda è stata nei vagoni blindati – 3 ore e mezza all’andata. cinque al ritorno – fermi nelle microcelle per due persone, sempre seduti, in 120 cm e 80 cm di profondità. Provate a mettervi su una sedia di fronte al muro e guardare solo quel muro senza potervi muovere. Agli ammalati, come me, hanno preso e tolto le medicine, le pasticche o il respiratore per chi aveva l’asma. Se mi fosse preso un attacco di pressione alta avrei rischiato di morire. A un ragazzo hanno levato la protesi al piede e gli hanno dato al suo posto una ciabatta. Hanno fatto cose animalesche». Questo è quanto.
