GREEN PASS. L’IMPEGNO DELLA CARITAS PERCHÈ TUTTI SIANO VACCINATI

Mentre aspetta chiarimenti sulle regole per ostelli, mense, empori solidali, Caritas continua a vaccinare gli "ultimi"

Il 15 ottobre entrerà in vigore l’obbligo del green pass all’interno delle aziende private e degli enti pubblici. E se l’opinione pubblica continua a discutere se sia giusto o meno sospendere lo stipendio a chi si oppone alla misura di contrasto alla diffusione del coronavirus, il responsabile delle politiche sociali e della promozione umana di Caritas italiana, don Marco Pagniello, segnala che a restare escluso dal dibattito in corso è l’intero Terzo settore. Infatti non è stato ancora ben chiarito se nelle mense e i dormitori che accolgono poveri, homeless, immigrati e donne vittime di violenza sia necessario esibire la certificazione verde o no. Eppure, solo nella capitale, la Caritas conta un centinaio di sedi tra centri di prima accoglienza, case famiglia ed empori della solidarietà. Qui si raccolgono vecchi e nuovi poveri, in crescita del 75%, secondo le ultime stime della fondazione Unicampus San Pellegrino richieste dal Comune di Roma.

Don Pagniello, state effettuando controlli sui volontari e i fruitori dei servizi?

«Spazi per il consumo e ostelli con finalità solidali non sono citati in nessun documento. Non siamo né un esercizio commerciale, né un’impresa. Noi stessi abbiamo sollevato la questione al governo, affinché il diritto alla salute venga garantito per tutti, ma ancora non è arrivata alcuna risposta».

Finora come vi siete organizzati?

«I centri Caritas stanno rispondendo all’emergenza con grande creatività e nel rispetto delle normative, per non lasciare soli coloro che hanno più bisogno di aiuto».

Quindi non avete modo di sapere se tutti i vostri operatori sono vaccinati…

«Sicuramente tutti sono stati invitati a sottoporsi alla somministrazione, ma non essendo in vigore un obbligo ufficiale non possiamo costringerli a farlo. Ci tengo a precisare però che chiunque si avvicina a noi lo fa per fare del bene agli altri».

E casi di no vax ne avete avuti?

«Caritas coinvolge un numero talmente grande di donne e uomini di buona volontà che non mi stupirei se avesse intercettato anche qualche scettico o semplicemente chi non può per motivi di salute. In questi casi i responsabili possono cambiare loro le mansioni e dirottarli in attività per le quali non costituiscano un pericolo per sé stessi e per gli altri».

Invece i destinatari dei vostri servizi sono sottoposti a controllo?

«In alcuni casi parliamo di persone che non rientrano proprio nel Servizio sanitario nazionale. Un immigrato irregolare come può prenotare una dose se non dispone di un codice fiscale? Un clochard che indirizzo di residenza indica nella documentazione? E uno straniero comunitario disoccupato che tessera sanitaria esibisce? Ecco perché in collaborazione con la Regione Lazio e la Comunità di Sant’Egidio da luglio è partito un piano per vaccinare le persone escluse dalle liste ufficiali, lì dove sono».

Ma se non si conosce il loro stato di salute, non è pericoloso farli entrare nei vostri locali?

«Il criterio che ci guida è la prudenza. Ogni territorio ha stipulato accordi con l’azienda sanitaria di riferimento, in modo che nessuno resti indietro in un periodo così delicato. Nei dormitori abbiamo richiesto i tamponi, controllati dai nostri iscritti. Per le mense non è stato così. Avremmo bisogno di molte più persone, ma le risorse sono quelle che sono. E dato che le donazioni durante la pandemia sono scese, non possiamo permetterci di pagarle».

Insomma cosa chiedete alle istituzioni?

«Prima di tutto farci capire cosa dovremmo fare e come. Con una importante consapevolezza: che noi non siamo disposti a lasciare indietro nessuno. Il problema è burocratico. Come Caritas siamo disposti ad accompagnare personalmente tutti coloro che hanno difficoltà ad accedere al green pass presso le Asl più vicine e a trovare spazi alternativi per le campagne vaccinali. Purché il governo ci permetta di farlo».

 

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