L’INTRUSA, IL FILM CHE RACCONTA DUBBI E LIMITI DEL VOLONTARIATO

Ci sono limiti all'accoglienza? Leonardo Di Costanzo racconta la storia di un centro che allontana i bambini dalla Camorra

Giovanna ha fondato un centro di aggregazione giovanile, la Masseria. Siamo a Napoli, e i bambini che passano lì i pomeriggi a giocare, creare e sperimentare dopo la scuola così stanno lontani dalla strada, dal degrado, dalla criminalità. Alla Masseria però ha cercato rifugio anche Maria, una giovane madre con due figli, che è anche la moglie di un camorrista.

Quella che vi raccontiamo non è una storia vera, ma potrebbe esserlo. È un film, L’intrusa, diretto da Leonardo Di Costanzo, che è stato molto apprezzato al recente Festival di Cannes (Quinzaine Des Réalisateurs) e arriva nelle nostre sale dal 28 settembre.

 

L'intrusa
“L’intrusa” sarà nei cinema il 28 settembre.

LE ZONE GRIGIE. È un film di buone notizie, perché apre una luce su tante realtà simili a questa, che provano a togliere i ragazzi dalle strade con passione e creatività. Ma è anche un film di domande, di contraddizioni, perché in storie come questa, in situazioni di confine, non tutto è bianco o nero, ma ci sono molte zone grigie.

Maria (l’esordiente Valentina Vannino), infatti, alla Masseria ha forse la speranza di un futuro diverso, per sé e per i propri bambini. Ma per le altre madri rappresenta proprio quello da cui stanno cercando di proteggere i propri figli. Nel loro mondo è un’intrusa.

Il dubbio viene anche a noi che stiamo guardando. Maria è complice o vittima? È connivente o ha bisogno d’aiuto? Cosa faremmo se fossimo in Giovanna? Fino a che punto l’accoglienza deve fermarsi davanti alla legalità o all’ordine pubblico? Il mondo del sociale, abituato ad accogliere tutti, come deve comportarsi in certe situazioni?

 

I LIMITI DEL VOLONTARIATO. “La Masseria è un posto per tutti i bambini, non posso cacciare nessuno”, dice a un certo punto Giovanna (Raffaella Giordano, nota danzatrice e coreografa) al preside della vicina scuola che le chiede di allontanare Maria. E, mentre proviamo a capire le ragioni di tutti, è difficile non essere smossi dalla delusione di Rita, la bambina di Maria, quando capisce che gli altri bambini non verranno più al centro.

 L’Intrusa è un film importante perché mette il mondo del Volontariato di fronte ai propri limiti, ai propri dubbi, e ci mostra quel dover continuamente reinventarsi e riposizionarsi perché si muove in territori incerti e inesplorati.

 

L’INTERVISTA. Di Costanzo, nei suoi documentari, si è trovato spesso ad interessarsi a figure di mediazione sociale, “eroi” moderni ancora poco raccontati rispetto all’importanza che rivestono nel mondo di oggi. La Giovanna de L’intrusa vuole rappresentare tante figure importanti, e invisibili, che ogni giorno dedicano la loro vita ad accorciare le distanze tra i più fortunati e i meno fortunati.

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Il regista Leonardo Di Costanzo sul set de “L’intrusa”

Come mai è interessato a figure di mediazione sociale?
«Da un punto di vista politico o umanistico sono figure che occupano un posto con un punto di vista privilegiato per raccontare il mondo in questo momento. Mi interessa chi oggi si tira su le maniche e cerca di fare delle cose, si inventa strategie per costruire futuri nel loro universo, per immaginarsi mondi diversi, rapporti diversi, costruzioni di comunità diverse. Per un narratore è una materia ricca dal punto di vista drammaturgico. Il carattere letterario dell’eroe è l’essere messo di fronte a delle prove». 

Da dove arriva la storia de L’intrusa? Ha conosciuto da vicino realtà come quelle della Masseria?
«Conosco questo mondo per frequentazioni personali, ho molti amici che hanno fatto quella scelta. Volevo fare un documentario su una donna che metteva in comunicazione le donne in carcere con i figli rimasti a casa, e mi emozionava molto: mi chiedevo quanta forza richiedesse, quanta sospensione del giudizio. Non farsi condizionare dalle storie di quelle persone, ma vivere il bisogno che c’era in quel momento. Questa forza, la motivazione necessaria a fare questo mi sembrava interessante: avevo grande ammirazione e mi chiedevo come si riuscisse a farlo. Osservare persone come queste mi è utile anche per capire il mio stare al mondo».

Fino a che punto l’accoglienza e la solidarietà possono arrivare prima di fermarsi davanti alla legge, o alla sicurezza?
«Per chi sta in questi territori di confine questa è una domanda continua, una condizione quotidiana. Le categorie che valgono altrove lì sono continuamente riadattate se vuoi continuare a fare quello che fai. Credo che in qualche modo devi portare una testimonianza. Nel caso di Giovanna il problema è tenere i ragazzi dentro il centro e trasmettere una serie di valori, che cos’è il vivere insieme. È un continuo rimettere tutto in discussione, fa parte del cuore del lavoro di queste persone. Questi interrogativi non riguardano solo loro, ma tutti noi».

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La storia si svolge in un immaginario centro di aggregazione giovanile di Napoli

Il fatto che il mondo del sociale sia abituato ad aiutare tutti, indiscriminatamente, è un problema? A volte deve darsi dei limiti?
«Ho la sensazione che in questo universo ci siano dei punti di vista abbastanza diversi. La costellazione è costruita da tanti gruppi che proprio su queste questioni possono non trovarsi. A volte mi fanno pensare alla costellazione dei gruppuscoli politici degli anni Settanta. Durante la scrittura del film abbiamo avuto la tentazione di entrare in queste dinamiche – chi prende i soldi, chi no, chi sceglie di avere a che fare solo con chi sceglie la legalità – però sarebbe diventato qualcosa di troppo specialistico. Quello che alla fine Giovanna dice al preside della scuola per me è fondamentale: non tanto che bisogna aiutare tutti, ma il fatto che lei sia lì per spezzare quella catena, quella coazione a ripetere che fa sì che il figlio segua il padre nella criminalità. Se deve solo aiutare le persone che ha già convinto e con cui fa comunità la cosa non le basta».

Cosa pensa dei continui aggiustamenti e riposizionamenti di chi fa questo lavoro?
«Credo che sia una cosa molto difficile. Ovviamente sono persone preparate, e fa parte del loro lavoro, è la ragione stessa di quello che fanno, proprio perché stanno ai margini, in una posizione di confine. Per questo dico che sono degli sperimentatori: sperimentano di volta in volta delle forme di coabitazione, di stare insieme. E questo serve anche a chi non vive quella realtà».

La paura dell’intruso, in questo caso, ha a che fare con la Camorra. Ma è qualcosa che permea l’Italia di oggi. Il film ha a che fare anche con questo?
«A un certo punto mi sono reso conto che la situazione di questa intrusa, che è l’altro da noi, sia una cosa che stiamo vivendo in questo momento. Mi sembra che sia evidente».

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“L’intrusa” è stato applaudito a Cannes

Che rapporto ha L’intrusa con il Neorealismo? Da un lato è vicino, attori presi dalla strada, dall’altro si allontana facendoli muovere in uno spazio costruito…
«Al Neorealismo ci sono arrivato attraverso il documentario, per un’evoluzione del mio lavoro da documentarista, più che per un’emanazione diretta della lezione neorealista. Quando si è trattato di costruire delle storie, inventarsi dei personaggi, degli intrecci ho pensato al teatro, che ho frequentato molto in passato. La forma de L’intrusa, come del precedente L’intervallo, deve una parte al documentario e una al teatro. Volevo portarmi delle cose del documentario, come la possibilità di essere continuamente sorpreso, perché la realtà va sempre dove non ti aspetti, verso l’imprevisto. Per farla, però, mi sono ricollegato a un’idea di teatro vicina a quello degli anni Settanta, basato sull’improvvisazione, sul rapporto con il territorio. Ne L’intrusa, come ne L’intervallo, tutto passa all’interno di uno spazio separato, come a teatro».

Il sociale è una zona franca, che la criminalità organizzata non tocca, o chi opera contro la Camorra, seppur non combattendola direttamente, deve sentirsi in pericolo?
«Loro si sentono in pericolo. Credo che ci sia una sorta di non belligeranza. Però molte “giovanne” che ho incontrato al tempo stesso hanno paura e disprezzo, ma sanno bene che anche gli uomini e le donne della Camorra sono le prime vittime del sistema. È un’idea che permette di entrare in contatto con loro e spezzare la catena. Se prendono una posizione mediana non è per quieto vivere, ma perché intendono agire su quella realtà».

 

 

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