MALATTIE RARE. L’IMPORTANZA DI NON RIMANERE SOLI CON LA MALATTIA

Tre storie dall'associazione Mondo Charge per capire le difficoltà dei malati e delle loro famiglie. Che spesso non trovano abbastanza sostegno nel nostro sistema di welfare

di Mirko Giustini

Ricorre oggi la quindicesima Giornata delle malattie rare. A differenza di altre patologie più comuni, e per questo tristemente più note, c’è da scommettere che non riscuoterà lo stesso clamore mediatico. D’altronde, per definirsi rara, una malattia non può superare i 5 casi ogni 10 mila persone. La soglia è stata stabilita dall’Unione europea e abbraccia tra i 7 mila e gli 8 mila diversi disturbi. Secondo la rete Orphanet Italia, nel nostro Paese si contano circa 2 milioni di persone affette, il 70% delle quali è in età pediatrica.

Il tema portante di questa edizione 2022 è la diagnosi, la sfida più disarmante sia per i pazienti che per le loro famiglie. Soprattutto perché nella maggior parte dei casi si sa poco e senza un controllo accurato e tempestivo si rischia di incorrere in ricoveri inutili e infinite consulenze specialistiche, che sottraggono tempo ed energie alla cura del bambino. Prima si dà un nome alla disabilità e prima si comincia ad affrontare la vita da un punto di vista differente.

Perché a me?

Un cambio di prospettiva promosso in questi giorni sui social network da Angela Amato Polito, madre di Luca e vicepresidente di Mondo Charge, (qui il sito, dove si possono trovare tante storie di bambini e adulti che hanno la sindrome Charge) associazione che prende il nome dalla sindrome causata da difetti dello sviluppo embrionale. «Che brutta parola, quasi una maledizione per chi la sente addossare al proprio figlio», esordisce. «Ecco perché all’inizio ci si chiede “perché a me?”. Ma poi, entrando in contatto con esperti, organizzazioni e altre persone alle prese con situazioni analoghe, si capisce che dopotutto queste malattie non sono poi così rare. Ognuno reagisce a modo suo: siamo chiamati ad abbracciare la nostra fragilità e per qualcuno è uno shock. Ci vuole tanta pazienza per dare risposte alle legittime domande di amici e parenti. Tuttavia alle mamme ne occorre molta di più. Io ad esempio ho passato i primi tre anni in ospedale e non c’era il tempo di pensare al lavoro. Ho dovuto rifiutare offerte che prevedevano contratti a tempo indeterminato e a orario pieno, ma incompatibili con le cure per Luca. Il rischio di impoverimento è alto, specialmente per i nuclei monoreddito. La cosa più importante però è costruire attorno al paziente una rete sociale di supporto e un percorso che punti al raggiungimento dell’autonomia».

Il problema è vostro

«Cosa ho provato quando l’ho saputo? Mi sono sentita crollare il mondo addosso». Non usa giri di parola Giulia Logiacco, madre di Jacopo. «La reazione immediata è stata cercare altri pareri capaci di smentire la prima diagnosi. Da lì inizia un lungo peregrinaggio, che nel nostro caso si è concluso con il riscontro di un peggioramento, un parto prematuro e l’accettazione dello stato di salute di nostro figlio», ricorda. «In particolare Jacopo ha tutte le componenti della sindrome Charge, ma durante l’ospedalizzazione è risultato negativo al test. Mio marito ed io non abbiamo risposto allo stesso modo alla notizia, mentre a nostra figlia Lavinia è bastato sapere che il suo fratellino era nato. Nei suoi disegni lo ritrae come un eroe. Nel frattempo io ho perso il mio posto in azienda e non ne ho più trovato un altro. Non mi importa: mio figlio ha bisogno di me. Se anche trovassi un datore di lavoro disposto a concedermi più permessi, la mancanza di personale addetto all’assistenza domiciliare non mi permetterebbe di muovermi da casa. Il messaggio che arriva dalle istituzioni è che il problema è il nostro e ce lo dobbiamo risolvere da soli. Al futuro non voglio pensarci: spero solo di avere abbastanza forze per stare vicino a mio figlio il più lungo possibile e fare in modo di non lasciare alla sorella una situazione più grande di lei».

Trovare la forza

Il caso di Marika Punzo invece è emblematico di come si possa crescere insieme alla disabilità. «A me è stata diagnosticata un’artrite idiopatica all’età di tredici anni e oggi lavoro come infermiera all’ospedale Sant’Eugenio», sottolinea. «Non mi libererò mai della malattia, ma ho imparato a conviverci. Nonostante le tante assenze a scuola non ho mai perso un anno. Per tanto tempo ho lavorato come libera professionista evitando lavori troppo pesanti. Adesso esercito la mia professione in un reparto che non richiede eccessivi sforzi fisici. Il domani è un pensiero ricorrente: se un giorno starò male e non riuscirò ad alzarmi? Se dovessi avere un figlio? Dubbi sacrosanti che non ottundono l’aspetto più importante: trovare sempre la forza per andare avanti».

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