SOLIDARIETÀ E INFORMAZIONE: PERCHÈ SONO INCOMPATIBILI

I media scelgono le notizie in base a criteri che escludono la cultura del volontariato. Anche perché creano conflittualità e paure

di Paola Springhetti

Solidarietà e informazione sono due mondi incompatibili? L’AGcom (autorità per le garanzie nelle comunicazioni) monitora costante il pluralismo politico in televisione, cioè quanto spazio viene dato alle varie forze politiche del nostro paese. Monitora però anche il “pluralismo sociale“, anche se questi dati vengono presi meno in considerazione. Peccato, perché invece sono rivelatori di come il sociale sia ignorato dall’informazione. Prendiamo, ad esempio, il mese di marzo 2016, indicativo perché non era ancora cominciata la campagna elettorale e non era periodo di feste religiose (in occasione delle quali si apre qualche spazio in più anche per le associazioni). In quel mese, i dati dei cosiddetti  “tempi di antenna” (cioè il tempo complessivamente dedicato a un soggetto, dato dalla somma del “tempo di notizia” e del “tempo di parola”) del pluralismo sociale nei telegiornali della Rai dicono che:

  • soggetti e organi costituzionali hanno avuto il 34,58% del tempo;
  • partiti, movimenti ed esponenti di partito italiani il 34,75%;
  • associazioni di soggetti di rilievo per il pluralismo sociale l’1,17%;
  • i protagonisti sociali lo 0,43%;
  • la gente comune lo 0,33%.

Nel grande calderone delle “associazioni di rilievo per il pluralismo sociale” rientra anche il volontariato: è una realtà enorme, che conquista poco più dell’1% del tempo. Sono praticamente assenti, poi, i protagonisti sociali e la gente comune.
Va un po’ meglio nei programmi extra TG, dove – a fronte di un crollo del tempo dedicato a istituzioni e partiti politici  –  le associazioni conquistano un 8,6 % del tempo, i protagonisti sociali il 2,16, mentre la gente comune rimane allo 0,76. Poco, comunque.

I criteri di notiziabilità

Dunque, le associazioni e le organizzazioni non profit non fanno notizia e non hanno spazio nell’informazione. Eppure sono strumenti attraverso i quali i cittadini esprimono la propria cittadinanza e il proprio impegno per cambiare la società e renderla migliore. Spesso riuscendoci, in modo significativo.
Le routine giornalistiche si fondano sui cosiddetti criteri di notiziabilità o valori notizia: ogni giorno, anzi in ogni momento della giornata, bisogna decidere che cosa può diventare una notizia e che cosa invece no. Il lavoro giornalistico è prima di tutto un lavoro di selezione, cioè di esclusione di tutto quello che non “fa” notizia. Per scegliere con la rapidità che i tempi dell’informazione impongono, si fa riferimento a questi criteri, che sono stati catalogati in vari modi, ma che più o meno si possono riassumere così: fa notizia l’evento che è caratterizzato da

  •  vicinanza (cioè è vicino ai lettori/ascoltatori);
  • novità;
  • drammaticità;
  • conflittualità;
  • prestigio sociale (attori e personaggi famosi vari fanno notizia, gli altri no);
  • semplicità (le notizie troppo complicate da spiegare escono dalla pagina).

È evidente che questi criteri di selezione delle notizie escludono il volontariato e i valori di cui è portatore.
solidarietà e informazioneIl volontariato è ovunque sul territorio, e dunque geograficamente vicino a tutti, ma si fa portatore delle periferie – urbane ed esistenziali – che gli ascoltatori non vogliono avere vicine. Il volontariato è una realtà che porta cambiamento sul territorio, ma non è una novità evidente né clamorosa. Il volontariato si occupa di problemi gravi, ma non lo fa in modo drammatico: anzi, il suo obiettivo è costruire “normalità” di rapporti e di vita. I volontari non godono di prestigio sociale, né fama, né pubblica visibilità. I volontari fanno cose complicate – come difendere i diritti o lottare contro le cause della povertà – che vanno spiegate.

L’informazione conflittuale

Queste incongruenze diventano ancora più evidenti quando si affronta il tema della conflittualità, dominante nei nostri mezzi di comunicazione sociale: basti pensare ai tanti talk show che su questo impostano la loro ricerca di audience. Paolo Mieli, in una intervista rilasciata nel ’92, appena diventato direttore del Corriere della Sera, l’ha teorizzato: «Il conflitto fa più notizia perché attrae di più. Ci stiamo accorgendo che i conflitti rendono un argomento molto meglio di una generica esposizione. Se noi riusciamo a creare il polo A e il polo B attraverso i quali scocca la scintilla, il lettore, dovendo scegliere se ha ragione il polo A o il polo B, capisce meglio ciò di cui si sta parlando. Il conflitto è una cosa che delimita i campi, che focalizza l’attenzione». E così, dove non ci sono poli opposti, ma posizioni diverse ed articolate, si creano.
Questa idea ha dominato e domina l’informazione, tagliando la strada al confronto pacato e ragionante, e aprendola alle risse e all’estrema semplificazione delle diverse posizioni. In fondo, è un modo ricreare il dramma dove altrimenti non c’è.
Infatti, un discorso analogo vale per la drammaticità, principio in base al quale gli eventi “cattivi” sono abitualmente considerati più importanti e interessanti di quelli “buoni”. Le cattive notizie vincono sulle buone e fanno vendere di più. Quelle che gli anglosassoni chiama hard news si possono mettere in scena più facilmente delle soft news.
Del resto la regola bad news=good news (gli eventi cattivi sono buone notizie) è antica. Ce lo insegna anche la storia che studiamo a scuola: secoli, millenni di guerre, conquiste, carestie, pestilenze. Come ha scritto Emilio Rossi, «Alla normalità si dà scarso o nessuno spazio; di intere annate, proprio perché normali in tutto il loro corso, nulla viene giudicato degno di annotazione e quindi di memoria» (L’undecima musa, Rubbettino 2001, p. 67). nella storia, e nella cronaca.

La fabbrica della paura

Insomma, il problema viene da lontano, non riguarda solo i mezzi di comunicazione di oggi, i quali, però, l’hanno ingigantito con gravi conseguenze sull’opinione pubblica.
Anche perché è fin troppo facile sfruttare questi meccanismi a scopo politico: gli obiettivi della politica (il consenso) e quelli dei media (l’audience) spesso vanno a coincidere dando vita a una vera e propria fabbrica della paura, che fa sì che l’opinione pubblica percepisca la realtà in modo assai più inquietante di quanto i dati giustifichino. Ma i dati, nella loro oggettività, difficilmente riescono a domare le emozioni.

volontariato e informazioneUn esempio lampante si trova in un rapporto della Fondazione Unipolis  sulla sicurezza in Italia del 2009. Alla domanda: secondo lei, c’è maggiore o minore criminalità in Italia rispetto a cinque anni fa, gli italiani in stragrande maggioranza rispondono che ce n’è di più. La percentuale è dell’80.1% nel 2005, ma nell’ottobre 2008 sale all’86.6%. Che cosa è successo, per preoccupare così gli italiani?
I dati dei reati, in realtà, rimangono sostanzialmente uguali. Cambia però il modo in cui i media li raccontano.
volontariato e informazioneIl rapporto segnala infatti un crescendo del numero notizie incentrate su episodi di criminalità nei telegiornali italiani, notizie che hanno raggiunto un picco molto alto nella seconda metà del 2007. Nella tabella qui accanto, la linea rossa segna l’aumento e poi il brusco calo del numero di notizie di questo tipo, quella azzurra segna il numero dei reati commessi; quella gialla la percezione degli italiani. È evidente che non c’è correlazione tra i dati e le notizie. Perché dunque quel picco di notizie di “nera”? Sicuramente ci furono episodi criminali che suscitarono un forte interesse dei media, in base ai criteri di notiziabilità di cui sopra. Ma non si può ignorare che all’inizio del 2008 ci sono state le elezioni politiche e una tornata di amministrative. La che la destra ha incentrato la propria campagna appunto sul tema della sicurezza. A Roma, per esempio, vinse Alemanno.
Aggiungiamo solo che, secondo il rapporto Unipolis, la paura aumenta in chi guarda la televisione più di quattro ore al giorno.

Solidarietà e informazione: si può chiedere un cambiamento?

Si tratta solo di un esempio indicativo: tutti questi fattori concorrono a far sì che  il nostro sistema dell’informazione concorra a rendere la nostra società ogni giorno più lacerata e incapace di capire i vari punti di vista, che pure dovrebbero coesistere al proprio interno.
Non è certo il tipo di società che ha in mente il volontariato, il cooperante, il cittadino attivo, che puntano invece a costruire una società caratterizzata da un forte tessuto umano, in cui il ben-essere che si vuole perseguire nasce dal garantire a tutti dignità e possibilità di costruirsi una vita buona, in cui le diversità sono accettate come frutto della libertà e valorizzate come ricchezza che apre al futuro, in cui il bene comune è considerato un valore in quanto tale, e non un qualcosa che è stato espropriato ai singoli.
solidarietà e informazioneSolidarietà e informazione: è realistico chiedere al sistema dell’informazione una presa di coscienza e un cambiamento verso un’informazione che sia davvero, come dovrebbe essere, un bene comune?
Non lo so, certo sarebbe almeno più facilmente ipotizzabile, se i cittadini fossero sinceramente convinti, che questa conversione culturale dell’informazione è necessaria. Cosa di cui dubito, quando mi aggiro nei luoghi in cui  loro stessi prendono la parola e la diffondono: i social network. I cittadini pubblicano contenuti ancora più conflittuali e drammatici di quelli proposti dai media tradizionali. In più non verificati, per cui spesso sono clamorose bufale. Il cittadino medio, quando comunica, non è migliore del giornalista medio.

 

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