PRO O CONTRO IL SHARING? I DILEMMI DEL TERZO SETTORE

Idee e proposte per non lasciare alle multinazionali metodi e strumenti di innovazione. Purché si faccia un lavoro culturale sui territori

di Paola Springhetti

È interamente dedicato alla sharing economy il numero 1/2018 di VDossier. Da qui abbiamo tratto questo contributo.

Le possibili critiche alla sharing economy sono molte e, a volte, diventano vere e proprie accuse: è solo una moda, crea forme di capitalismo ancora più rigide di quelle tradizionali, porta eccessiva deregulation, precariato, evasione fiscale, consumismo, opacità fiscale, furto di dati con le relative speculazioni. Tutte questioni che non dovrebbero piacere ai cittadini, ma soprattutto al Terzo settore e al volontariato, basato su valori inconciliabili con tutto ciò.

Abbiamo provato ad interpellare esperti ed esponenti di questo mondo, per capire che consapevolezza c’è attorno a questi problemi e se sono in qualche modo affrontabili, o almeno aggirabili. Per scoprire che sì, i problemi sono tanti, ma che non per questo si può evitare la sfida. Anzi, c’è chi già la sta cogliendo, anche tra i Centri di servizio per il volontariato.

 

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Giuseppe Guerini, portavoce dell’Alleanza delle Cooperative Sociali

GUERINI: il problema della governance
«La possibilità di utilizzare nuove tecnologie per un utilizzo diverso dei beni – portare le persone dal possesso all’uso degli oggetti – attiva nuove importanti prospettive», esordisce Giuseppe Guerini, portavoce dell’Alleanza delle Cooperative Sociali. «Però non si può negare che è anche una moda, nel senso che oggi questo concetto è diventato particolarmente smart: le piattaforme di sharing sono state capaci di veicolare un’immagine positiva, da cui è nata una distorsione nell’uso. Se analizziamo come funzionano Uber, Airbnb o Foodora e così via, vediamo che, in realtà di sharing c’è poco: quello che si condivide è il rischio di impresa o di mercato – che viene scaricato ad esempio sui raider – ma non la governance, né il guadagno. Quindi è un’economia estrattiva, come la definiva il grande e vecchio liberale Luigi Einaudi».

Ciò nonostante, è un male che l’economia sociale sia rimasta indietro, soprattutto «nell’intuire che questi nuovi modelli sono uno strumento formidabile per un rilancio dei modelli cooperativi o di quelli della cittadinanza attiva e partecipata».
Qualche esperienza esiste. Ad esempio «ci sono alcune piattaforme di tipo cooperativo per la condivisione di appartamenti. C’è un’esperienza che riguarda i bed&breakfast: diventando soci di una cooperativa, i gestori sono anche proprietari della piattaforma e in questo modo orientano le scelte. Inoltre stanno nascendo delle cooperative di raider, che in questo modo non dipendono più esclusivamente dalla piattaforma digitale. Il motivo per cui sono convinto che i soggetti dell’economia sociale devono interessarsi a questi temi e a queste opportunità tecnologiche è che il tema della partecipazione è uno dei
più rilevanti, da mettere in gioco».

Senza partecipazione, infatti, gli strumenti di sharing non saranno mai strumenti di condivisione. «Nell’insieme di coloro che stanno su Twitter o su Facebook, di comunitario c’è ben poco. Nel 2016 è stata lanciata la campagna #WeAreTwitter, per l’acquisto di Twitter. Era, se vogliamo, una provocazione, ma voleva dire: noi cittadini ci mettiamo i contenuti, non siamo pagati per questo e in più veniamo derubati del valore economico dei dati. Bisognerebbe introdurre una normativa in base alla quale le piattaforme, in cui sono gli utenti che caricano contenuti, devono condividere il valore generato, quanto meno attraverso una forma di proprietà collettiva. Un Facebook come public company prima o poi dovrà essere messo all’ordine del giorno».

E qui il discorso si allarga e mette in gioco il futuro della democrazia, «che dovrà fare i conti con le nuove tecnologie, come dimostrano gli avvenimenti di questi ultimi anni. O il Terzo settore fa i conti con tutto questo, o rischiamo che il dibattito e la partecipazione si scontrino con sistemi condizionati e controllati da società che non hanno sede in Italia e che veicolano fake news o propaganda, senza che possiamo farci nulla», conclude Guerini.

 

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Luisa Crisigiovanni, segretaria generale di Altroconsumo

CRISIGIOVANNI: la tutela dei consumatori. Luisa Crisigiovanni, segretaria generale di Altroconsumo, affronta il tema dal punto di vista della tutela dei consumatori. «Le nuove generazioni, anche perché hanno meno disponibilità, sono in qualche modo obbligate a condividere. La novità è stata l’innovazione tecnologica che, attraverso queste piattaforme, ha permesso la condivisione anche con sconosciuti. Da una parte ci sono dei capitali, a volte anche un patrimonio ereditato in famiglia o altre potenzialità (possono essere le seconde case o del tempo disposizione o conoscenze), che vengono barattate in cambio di un microreddito o di qualche altro bene o servizio, per cui si genera valore. Su scala industriale questo è stato sfruttato da piattaforme multinazionali che hanno costruito il loro business, ma che comunque rispondono a bisogni diversi – pensiamo a Airbnb – che non avevano trovato risposta nel mercato tradizionale. Quindi da una parte c’è creazione di valore, dall’altra ci sono delle sfide, anche ambientali: sostenibilità economica e sostenibilità ambientale si sostengono reciprocamente in modelli di consumo diversi».

Crisigiovanni non è d’accordo con l’obiezione che, però, là dove si è diffusa su larga scala, la sharing economy ha creato precariato e corrosione dei diritti dei lavoratori. «Nel 2016, quando a Ferrara abbiamo organizzato il festival sulla sharing economy, abbiamo cercato di lanciare questo messaggio: l’importanza di creare opportunità, legate all’economia della condivisione, che valorizzino competenze non ancora immesse nel mercato del lavoro. La sharing economy ha creato opportunità, secondo le nostre analisi, per persone che altrimenti non avrebbero lavorato. In dialetto milanese si dice “piutost che nient l’è mei piutost”: cominciamo da qualcosa. Questi “lavoretti” sono nati come redditi integrativi, o come piccoli lavori per studenti o per valorizzare capitale umano altrimenti
inutilizzato».

Il vero problema è la tutela del consumatore, perché «è vero che le grandi piattaforme hanno sviluppato modelli di business multicountry che escono dal modello peer to peer. Ma la vera economia della condivisione nasce come ambito in cui i consumatori si prestano cose o scambiano servizi: una piazza virtuale. Questo ha sconvolto anche le regole a tutela del consumatore. Quando compro da un sito di ecommerce sono tutelato: ho alcuni diritti, come quello di recesso. Se compero o ricevo un servizio da un pari, non ho lo stesso sistema di tutele. Per questo devo essere consapevole che dall’altra parte c’è un consumatore come me, al quale devo chiedere garanzie di altro tipo, magari un’assicurazione. E poi c’è anche il problema del regime fiscale e di come evitare che questi soggetti facciano concorrenza sleale a chi invece è obbligato a osservarlo».

Si potrebbe obiettare che regolamentare, in questo caso più ancora che in altri, significa soffocare. «Per questo noi non siamo per sovraregolamentare, ma ci deve essere trasparenza. Mettiamo il caso che io abbia bisogno di un servizio di baby sitting: devo sapere se ho davanti un operatore professionale o una persona che ha solo una disponibilità di tempo. Come AltroConsumo abbiamo sempre portato avanti una posizione aperta e neutrale rispetto al tema delle tutele a 360 gradi: dall’altra parte potrebbero esserci altri consumatori, che potrebbero diventare occasionalmente operatori».

Per questo Altroconsumo ha portato avanti diverse proposte, tenendo conto di alcuni punti sensibili: il regime fiscale, se oneroso, non incoraggia i non professionisti a mettersi in gioco; la necessità di una gestione trasparente (anche sull’algoritmo che è dietro le piattaforme); il vero valore che le piattaforme generano sono i dati personali che poi vengono aggregati, gestiti e sfruttati.

Il modo in cui i dati sono gestiti e sfruttati può qualificare una piattaforma. Senza dimenticare che «l’Italia ha anche un problema culturale: la scarsa cultura digitale, che riguarda anche l’uso delle carte di credito. Un altro valore che potrebbe portare la sharing economy, infatti, è l’emersione del nero, ma è bloccato dalle resistenze sia all’uso della carta sia in genere all’uso degli strumenti digitali».

 

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Flaviano Zandonai, ricercatore di Euricse-Iris Network

ZANDONAI: il ruolo del non profit. «Non c’è dubbio che siamo di fronte a un cambiamento strutturale nel modo in cui si producono e si scambiano beni e servizi. Il problema è capire quale può essere l’effettivo ruolo del non profit in un contesto che sembra chiamarlo direttamente in causa: in fondo si parla di condivisione e quindi di un valore che gli è proprio», spiega Flaviano Zandonai, ricercatore di Euricse – Iris Network.
«È un fatto che le principali piattaforme sono gestite e governate da multinazionali che sono riuscite a costruirci intorno modelli for profit. Bisogna capire a quali condizioni si può stabilire un rapporto vero tra una economia basata su elementi di valore e un modello di governance non profit».

Una possibile soluzione è che «il non profit costruisca la propria piattaforma, governata in modo che la ricchezza prodotta venga redistribuita nelle comunità locali. Esistono già delle piccole esperienze e possiamo ipotizzare che succeda come per il commercio equo e
solidale, che è nato come esperienza di nicchia e poi è cresciuto ed è diventato una realtà stabile. In fondo, anche le piattaforme multinazionali hanno origine sociale. Airbnb dove ha preso il suo nome? “Air” richiama il materassino gonfiabile, quello che si tira fuori nelle
emergenze, per ospitare qualcuno…».

La seconda strada «è cercare di isolare, all’interno delle superpiattaforme profit, la dimensione sociale». Ipotesi che sembra ancora più difficile. E si potrebbe aggiungere che, nella storia italiana, anche molte banche sono nate come soluzioni mutualistiche ai problemi della gente, ma poi quell’ispirazione l’hanno persa del tutto. «È il dilemma sul ruolo del non profit. C’è stato chi ha definito “transitorie” le organizzazioni senza scopo di lucro: in fondo vivono e prosperano negli spazi che si aprono nel fallimento dello Stato o del Mercato; il non profit è curativo, poi è destinato a scomparire quando cresce e si trasforma in altro. Oggi però la partita è più complicata e non a caso si è inventata l’impresa sociale, cioè un veicolo che consente di fare non solo advocacy, ma un modello di economia e produzione solidamente alternativo, non solo di nicchia».

Le piattaforme digitali sono un sfida: «Se il non profit si desse una piattaforma di servizi prodotti e scambiati dai cittadini o intermediati dalle organizzazioni, potrebbe costruire qualche cosa di solido. Ma per questo servirebbe una grande azione nazionale». E sembra difficile, al momento, individuare il soggetto che possa farlo. «Ma un punto di partenza in realtà si può trovare. Penso, ad esempio, alle Fondazioni, che in questi anni hanno tanto investito sul welfare di comunità: se tutti questi progetti fossero messi in rete, l’esito potrebbe essere una piattaforma digitale, completata da una serie di
contatti analogici sul territorio».

Ecco un altro punto importante: il digitale va a depauperare le relazioni sul territorio? «Credo di no. Torniamo all’esempio di Airbnb, che ha creato Airbnb Citizen, una “comunità dedicata agli host e ai viaggiatori che sostengono l’home sharing e lo considerano una risorsa per affrontare meglio le sfide sociali, economiche e ambientali del mondo”. Un modo per valorizzare le relazioni: addirittura vogliono costituire un’associazione di promozione sociale».

 

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Il professor Piero Dominici, dell’Università di Perugia

DOMINICI: la vera questione è quella culturale. Il problema vero, però, per Piero Dominici (docente di Comunicazione pubblica all’Università di Perugia), è che «continuiamo a voler gestire e controllare la cosiddetta sharing economy senza aver minimamente compreso la complessità e le ambivalenze della sharing society, la società della condivisione».

Il ragionamento di Piero Dominici parte dalla constatazione della complessità, non soltanto dell’oggetto in discussione, ma anche del concetto stesso di sharing, che «non chiama in causa soltanto quello di condivisione, ma anche quelli di compartecipazione e addirittura, in alcuni casi, interessenza, una sorta di partecipazione agli utili». Di conseguenza, bisogna tenere conto di alcuni fattori di contesto. «Siamo di fronte ad un ecosistema globale e iperconnesso, segnato da numerosi paradossi e da una serie di variabili, flussi, interazioni, interconnessioni, legami, meccanismi, che ne rendono le dinamiche instabili e difficilmente prevedibili. È una società ipercomplessa, in cui il trattamento e l’elaborazione delle informazioni e della stessa conoscenza sono divenute le risorse principali, che alimentano il sistema-mondo. Però alla crescita esponenziale delle opportunità di connessione, non corrisponde, almeno per ora, una crescita altrettanto
significativa delle opportunità di comunicazione e di relazioni paritetiche, con la complessa questione “cultural divide” che pesa moltissimo».

In questo ecosistema ci sono paradossi di cui bisogna tenere conto. «La pervasività del digitale sta totalmente ridisegnando l’architettura delle reti – non soltanto digitali – determinando una fase di trasformazione profonda e complessa, di cui non abbiamo ancora compreso le implicazioni, e non soltanto quelle di natura epistemologica. L’errore, come detto, è continuare a pensare, immaginare, gestire e definire strategie relative alla sharing economy, senza averne compreso fino in fondo la complessità dei legami e delle interazioni, e la loro attuale debolezza. Quando parliamo della società della condivisione,
ci riferiamo al fatto che non esistono soltanto scambi riconducibili ad una natura economica e razionale. Ad esempio, nella sharing economy andrebbe considerata e inserita l’economia del dono, che tende ad essere sottovalutata».

Un altro problema è legato al fatto che «i processi di innovazione e cambiamento non possono essere sempre e soltanto imposti dall’alto. Occorre lavorare anche sul lungo periodo per creare le condizioni sociali e culturali del cambiamento. È necessario impegnarsi, concretamente, nell’ambito dell’educazione, della formazione, della ricerca.
Una società della condivisione, realmente tale, ha bisogno di ricostituire il legame sociale; fondamentale, in tal senso, la riattivazione di quei fondamentali meccanismi sociali che sono la fiducia e la cooperazione. Quindi, non è possibile non ripartire dal ripensare a fondo l’educazione, dal tentativo di educare in primo luogo delle persone – e non soltanto degli individui – e, in secondo luogo, dei cittadini. Bisogna educare alla libertà e alla responsabilità, che sono concetti relazionali, presuppongono, non l’Io, bensì il Noi».

La tecnologia, insomma, non basta, né tanto meno bastano le leggi. «È un grande fraintendimento, continuare a pensare che il fattore tecnologico e il fattore giuridico siano condizioni necessarie – e lo sono – e sufficienti – e non lo sono – per garantire efficienza, innovazione, cambiamento e, soprattutto, inclusione: mi ripeto, bisogna lavorare e costruire dal basso le condizioni sociali e culturali di un’innovazione che, altrimenti, rischia di essere per pochi. Bisogna pertanto agire sulla scuola, sulle agenzie di socializzazione, sul tessuto sociale. Anche perché la scuola oggi è tornata ad essere agenzia di selezione e non di emancipazione. Bisogna recuperare un’idea e una visione complessa dell’educazione, che non siano soltanto legate a questioni di natura puramente tecnica, tecnologica, applicativa. Dobbiamo riportare il vissuto, le emozioni, l’immaginario, la creatività al centro dei percorsi educativi, perché dobbiamo formare persone».

 

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Federico Coan, direttore del CSV del Friuli Venezia Giulia

COAN: le prospettive per i Centri di servizio. Probabilmente è d’accordo con Dominici anche Federico Coan, direttore del Centro di Servizio per il Volontariato del Friuli Venezia Giulia (Csv Fvg): «La sharing economy oggi è una necessità, che può aprire delle prospettive, ma è anche una partita tutta da giocare: si tratta soprattutto di costruire community».

«Come Centro di servizio del Friuli Venezia Giulia stiamo ragionando, insieme a CSVnet, sulla sperimentazione di una piattaforma collaborativa del volontariato. E stiamo ragionando sulla dimensione off-line, quella che lavora sulle comunità. Lì i meccanismi e le leve sono molto diversi: sono quelli della prossimità, della fiducia, della reciprocità». L’obiettivo è «arrivare all’elaborazione di un prototipo, ma con un metodo condiviso, partecipativo, assieme agli utenti finali della piattaforma. E quindi, con un lavoro di coinvolgimento del territorio, fatto assieme ad esempio a gruppi di associazioni».

«La piattaforma – continua Coan – permetterà la condivisione di risorse – che può essere un’aula, o uno spazio, attrezzature, automezzi o altri beni materiali, ma anche beni immateriali: conoscenze, competenze, esperienze. È chiaro però che, perché si moltiplichino le opportunità, deve scattare il meccanismo della reciprocità».

Fino ad ora nel non profit si usavano altri termini: lavorare in rete, condividere, eccetera, ma non bastano più, perché senza strumenti adeguati «rischiano di essere ambizioni, aspirazioni, più che concretizzazioni. Si tratta di fare un salto di qualità, in modo che ciò che prima era demandato allo spontaneismo, possa diventare un tema e diffondersi, fino a raggiungere quel livello di massa critica che permetta di produrre e condividere valore che appartiene ad un intero sistema».

«Ho cominciato a lavorare a questo progetto», racconta Coan, «nel 2016, ora siamo arrivati ad un progetto su carta e stiamo valutando i tempi e le risorse per arrivare, in un anno, ad un prototipo o a una demo per capire di cosa stiamo parlando. Ma ripeto: il problema non
è solo il software, ma costruire dal basso una cultura della condivisione, che ancora non c’è». L’incognita dunque è: il volontariato è pronto? «Non credo, ma la cosa che ci lascia sperare è che i cambiamenti avvengono molto velocemente».

La sperimentazione riguarda strettamente il sistema dei Centri di servizio perché «può suggerire nuovi modelli organizzativi, con il passaggio da un modello “prestazionale-chiuso” dei servizi a modelli aperti, secondo prassi e strumenti di economia collaborativa.
Attraverso una adeguata piattaforma, si potrà, ad esempio, arrivare all’integrazione tra i principali servizi erogati dal Centri di servizio per il volontariato e quelli offerti in rete. In base ai servizi richiesti o consumati (i bisogni) e offerti o erogati (le risorse disponibili), il Csv potrà aggiornare e rimodulare la propria offerta in funzione delle aree di fabbisogno meno coperte dall’insieme delle pratiche di scambio e condivisione, ottimizzando l’impiego delle proprie risorse e garantendo la copertura di quei servizi che il sistema non riesce ad autosoddisfare». Insomma, «si tratta di passare da una logica di mera “distribuzione monopolistica” delle risorse del Csv ad una logica di moltiplicazione delle risorse del volontariato e, potenzialmente, del capitale sociale dell’intera comunità, attraverso un vero e proprio Sistema Locale di Reciprocità Indiretta, basato su scambi non monetari.

Se avete correzioni o suggerimenti da proporci, scrivete a comunicazione@cesv.org

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