COVID 19. LA GRANDE INCERTEZZA UCCIDE ANCHE IL SOCIALE

La chiusura di ristoranti e pub alle 18:00 mette a rischio l’attività di tante iniziative del sociale. Ecco alcune storie

DPCM ormai è una sigla entrata nel lessico – oltre che nei pensieri quotidiani e negli incubi notturni – di tutti noi. Parliamo del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, lo strumento con cui vengono prese, ormai da mesi, le misure di prevenzione e contenimento dei contagi da Covid 19. Ormai siamo abituati ad averne uno a settimana e li attendiamo con una certa preoccupazione. Una delle recenti misure di contenimento del Covid 19, lo sapete, ha stabilito che ristoranti, pub e bar debbano chiudere alle 18:00, lasciando eventualmente aperta la possibilità di preparare cibi per asporto e per il delivery. Si tratta di una decisione che ha gettato nello sconforto migliaia di ristoratori: una seconda, durissima doccia fredda per chi già tra marzo e maggio aveva dovuto abbassare le serrande, e da giugno era poi ripartito a fatica, adeguandosi alle nuove norme di sicurezza.

Tutti i ristoratori, in questo momento, si trovano in grande difficoltà. E, tra questi, ci sono anche alcuni progetti virtuosi, che hanno degli importanti fini sociali, che rischiano di dovere chiudere le loro attività senza poter ripartire. Parliamo della Locanda dei Girasoli, che da anni lavora per l’inserimento lavorativo delle persone con Sindrome di Down, e del Pub Vale La Pena, legato a un progetto di economia carceraria, il birrificio Vale La Pena, che permette il recupero e l’inserimento lavorativo di detenuti ed ex detenuti. Se attività di questo tipo sono costrette a fermarsi, capite come a farne le spese, ancora una volta, sono le fasce più deboli, quelle con delle fragilità.

Dopo il lockdown: riaprire a fatica

Ma facciamo un passo indietro. La Locanda dei Girasoli e il pub Vale La Pena sono stati già chiusi a lungo, questa primavera, ed erano ripartiti a fatica questa estate. «Se prima avevamo 120 posti tra interno ed esterno, visto il distanziamento e la ventilazione tutti volevano stare all’esterno», spiega Stefania Scarduzio, che si occupa delle pubbliche relazioni della Locanda dei Girasoli. «Abbiamo però tolto molti posti dal giardino, e reso i tavoli da quattro tavoli da due, quelli da sei da tre. Da una vita abbiamo chiesto lo spostamento della nostra sede in un’ubicazione più centrale, siamo in un posto difficilmente raggiungibile». A fatica, ma l’attività era ripartita. «I nostri ragazzi hanno capito tutto, sono stati sempre con le mascherine, anche se per loro è difficilissimo non abbracciare e non stringere, hanno iniziato come gioco a prendere la temperatura con il termometro a raggi infrarossi. Abbiamo scelto di aprire solo la pizzeria, siamo stati costretti a chiudere il ristorante. Dopo la cassa integrazione abbiamo iniziato con un dipendente e tutti i ragazzi, poi due dipendenti e infine tre».

 

Non si è trattato, insomma, solo di riaprire. È stato fatto un grande lavoro, e molti investimenti. «Ci siamo dovuti conformare alle norme previste: la sanificazione, il distanziamento tra i tavoli, la riduzione dei posti a sedere», ricorda Oscar La Rosa, gestore del pub Vale La Pena. «Abbiamo fatto un business plan e ci siamo detti: vale la pena, riusciamo essere sostenibili? Abbiamo pensato di sì. Abbiamo riaperto tra maggio e giugno: è stato un mese molto timido. Quando la gente ha ricominciato a prendere fiducia, ha cominciato ad andare verso il mare. A settembre finalmente si ripopola la città, e la gente ha ripreso ad andare al pub di quartiere. Abbiamo una clientela attenta al sociale, al buon senso, che preferisce scendere al pub sotto casa piuttosto che fare assembramenti al centro. Abbiamo investito sia negli allestimenti all’esterno del pub, sia per i vari materiali sanificazione».

Si chiude alle sei: ma chi alle sei apre?

E proprio quando le cose finalmente sembrano cominciare a girare, ecco un’altra doccia fredda. Si deve chiudere alle sei. Solo che molti locali, come quelli di cui vi stiamo raccontando la storia, alle sei aprono. «Appena uscito il DPCM abbiamo chiuso immediatamente, i ragazzi il giorno dopo erano già in ufficio da me per chiedere: quando riapriamo?», racconta Stefania Scandurzo. «Per loro questo lavoro è vita! Come tutti gli altri, ma per loro ancora di più». «È stata una seconda doccia fredda, per certi versi ancora più grave della precedente», riflette Oscar La Rosa. «Ci sono stati una serie di investimenti fatti per tenere aperta l’attività e invece si decide di chiudere tutto». Il mese di ottobre è stato un momento di grande incertezza, perché ogni settimana cambiava qualche norma. «E ogni settimana noi ci interrogavamo», spiega La Rosa. «Vogliamo continuare o no? C’è il contingentamento dei posti: calcoliamo bene i posti. C’è la chiusura a mezzanotte. Noi, fino al lockdown precedente, lavoravamo tanto a cena, e poco dopo cena. Per rendere tutto più sostenibile, abbiamo cominciato a spostare l’attenzione del pub verso il dopo cena, anche per non avere troppe persone allo stesso tavolo. E poi il DPCM ha vanificato tutto dicendo: a mezzanotte dovete chiudere. E quindi andava recuperata tutta la clientela che veniva a cena: abbiamo lavorato di nuovo sul menu in questo senso, per poi sentirci dire: alle sei i pub devono chiudere. Noi apriamo alle sei… Abbiamo ceduto. E al momento siamo chiusi. Abbiamo buttato quasi 600 euro di birra, salumi, affettati, latticini».

La grande incertezza

Oscar La Rosa ha centrato proprio il punto chiave di tutta questa storia, che sta tutto in una parola: incertezza. «Il danno più grave è non sapere cosa accadrà nelle prossime 24 ore, perché non ti consente di fare nessun tipo di programmazione» commenta il gestore del pub. «Abbiamo vissuto nel mese di ottobre una serie di DPCM che ci imponevano una serie di restrizioni». E non è così semplice per tutti cambiare orari, aprire a pranzo, come hanno fatto alcuni esercizi. «Su questo stiamo ragionando» ci spiega La Rosa. «L’idea è quella di aprire nuovamente: il venerdì, il sabato e la domenica c’è tanta gente che va a pranzare fuori. Ci dovrebbe essere il coraggio di dire: dalla prossima settimana apriamo il venerdì, il sabato e la domenica, facciamo gli acquisti delle materie prime. E se dopo una settimana un giorno il governo dice: meglio chiudere anche a pranzo i weekend? Ci troveremmo punto e a capo».

«Solitamente riempiamo il locale il fine settimana e di sera», spiega Stefania Scandurzo. «A pranzo non viene nessuno: non ci sono uffici, solo le Asl. Abbiamo provato a pensare a un takeaway, ma sarebbe stato molto dispendioso. Far lavorare due dipendenti per fare 20 pizze a sera non era possibile. Noi siamo molto decentrati: la gente che viene a trovarci viene per il progetto e per i ragazzi, oltre che per il fatto che si mangia molto bene».

 

La questione è insomma molto complessa. «Di fatto si tratta di riconvertire un’azienda dalla sera alla mattina», ragiona Paolo Strano, presidente di Semi di Libertà Onlus, la cooperativa che gestisce il pub. «Noi abbiamo fatto un lavoro affatto banale per arrivare a un equilibrio: riconvertire l’azienda verso qualcosa che non abbiamo mai fatto, e non è affatto facile. Il food che facciamo noi non va bene per l’asporto o il delivery. Il nostro core business è sempre stata la birra artigianale. Siamo un servizio senza cucina: possiamo scaldare, preparare, ma non cucinare. Questo è un problema enorme. E brutalmente devi ragionare sui margini, e i margini che abbiamo sul food sono molto bassi. Bisogna investire anche sulla comunicazione: se devi fare cose diverse, devi comunicarle, reimpostare tutto. E investi senza avere affatto la sicurezza che gli investimenti ritornino».

Così cambia la vita delle persone

A tutto questo si aggiunge la natura molto particolare delle persone che lavorano al pub Vale La Pena e alla Locanda dei Girasoli. «Al pub lavorano due persone», spiega Oscar La Rosa. «Una è un dipendente, e ha avuto l’ammortizzatore sociale della cassa integrazione. A metà ottobre era arrivato un ragazzo con una borsa lavoro del Comune di Roma: questo è un problema non indifferente, perché questo ragazzo, che è appena uscito dalla detenzione, non ha alcun ammortizzatore sociale. Per questo, al momento, lo stiamo facendo lavorare alla pulizia del pub: è un modo per dargli un’alternativa alla sua vita di prima. Ma può durare una settimana, forse due». «E non è banale per un ragazzo innescare dalla sera alla mattina un percorso differente, con orari differenti», aggiunge Paolo Strano.

«Per i nostri ragazzi questo lavoro è questione di vita» commenta Stefania Scandurzo. «E la nostra realtà è una speranza, anche per le persone che hanno dei figli così. Vedere una mamma con un bambino con Sindrome di Down di tre anni venire da noi e dire “sono felice di essere stata qui perché ho visto che per mio figlio ci sarà un futuro” non ha prezzo. Noi facciamo inserimento lavorativo, e diamo un futuro a chi esce da qui».

Andrà tutto bene?

La paura è che, andando avanti così, queste attività non possano riaprire più. «Abbiamo partecipato a piccoli finanziamenti per la struttura, teniamo duro fino a dicembre, poi vediamo», spiega la referente della Locanda dei Girasoli. «Continuiamo a pagare l’affitto, solo per un paio di mesi durante il lockdown il locatore ci ha fatto una donazione». «Cerchiamo di tenere botta», risponde il gestore del pub Vale La Pena. «Dipende se ci saranno le agevolazioni sui mutui. Sulle tasse non c’è stato nulla e le utenze da pagare ci sono sempre. La cosa buona è che il locatore, una società controllata da Banca d’Italia, si è messo a disposizione per aspettare tempi migliori».

Come dicevamo qualche mese fa? Andrà tutto bene. Speriamo sia davvero così.

 

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