FIORE: AMARSI A 16 ANNI, IN CARCERE

Fiore racconta l'amore tra due ragazzi in un carcere minorile. La limitazione di sentimenti più che d'azione. Una chiacchierata con Claudio Giovannesi

È già duro l’amore, quando sei un adolescente e a ogni delusione sembra cascarti il mondo addosso. Lo è ancora di più se sei rinchiuso in un carcere minorile, dove le ragazze sono separate dai ragazzi e comunicare è vietato. E tu hai un dannato bisogno d’amore. È di questo che parla Fiore, il film di Claudio Giovannesi, presentato a Cannes, alla Quinzaine des Réalisateurs (nelle sale di Roma e Milano da oggi, 25 Maggio, nel resto d’Italia dal 1 Giugno). Daphne (Daphne Scoccia) e Josciua (Josciua Algeri), personaggi che si chiamano come i loro attori, e un po’ sono come loro, sono due ragazzi che si trovano in un carcere minorile.

Fiore
Un’immagine di scena. Bim Distribuzione

L’idea che lei provi a chiamare la fidanzata di lui, che l’ha lasciato, dà il via a una corrispondenza, prima epistolare e poi di amorosi sensi, tra i due. Si scambiano lettere, favori, tenerezze sotto forma di bolle di sapone, poi un ballo lento a Capodanno, una delle rare occasioni in cui ragazzi e ragazze possono incontrarsi. Giovannesi racconta questa storia con un film che trae spunti dal Neorealismo.
Gli attori sono “presi dalla strada”: lei è stata trovata in una trattoria, lui è stato davvero in carcere. Ne deriva un film molto particolare, avvolgente e coinvolgente, a partire dalla fotografia di Daniele Ciprì, calda e ricca di colore, e dalla macchina da presa che accarezza il volto della protagonista. Fiore nasce dall’osservazione attenta delle vite dei ragazzi in carcere, è stato girato all’interno di veri istituti di detenzione, con molti ragazzi che sono stati veramente detenuti. Daphne e Josciua, Romeo e Giulietta calati nelle nostre periferie e nelle odierne sfortune quotidiane, vivono sullo schermo anche grazie a molto del dolore e della solitudine che si portano dietro i loro attori. Ne abbiamo parlato con il regista, Claudio Giovannesi.

Che ricerche ha fatto prima di ambientare un film in un carcere minorile?
«Per scrivere il film sono stato per sei mesi nel carcere minorile di Roma. Tutto quello che vediamo nel film viene dalla realtà. Il carcere minorile di Roma è misto, ci sono i maschi e le femmine, che sono divisi, in due palazzine separate, e non si possono incontrare, tranne in rari momenti, come la festa di Capodanno e la Messa. La comunicazione è clandestina, avviene come l’abbiamo raccontata, con lettere lasciate nel carrello dove viene consegnato il pranzo. Volevo raccontare una storia d’amore, e una grande storia d’amore è tale quando c’è un ostacolo. Quando ho saputo che il carcere minorile era misto, quella è stata l’idea che mi ha fatto venire voglia di andare a vedere».

Che caratteristiche ha questo ambiente?
«Il carcere minorile è uno strumento abbastanza anomalo. Per molti aspetti è analogo al carcere degli adulti, nel senso che questi adolescenti sono rinchiusi. Ci sono delle proposte educative, i laboratori che mostriamo, ma mi chiedo quanto siano sufficienti per un reinserimento nella realtà. Forse, se i soldi spesi per la detenzione ed il controllo carcerario fossero spesi per strumenti di educazione più precisi sarebbe meglio. Mentre giravamo, il limite d’età del carcere minorile era di 21 anni, ora è di 25: a questo punto ci sarà la compresenza di giovani adulti e di ragazzini, diventerà un luogo ancora più strano».

Il film racconta come possa essere pesante la limitazione della libertà di sentimenti ancor più che la libertà d’azione…
«In una condizione di reclusione quello che viene a mancare è proprio la libertà dei sentimenti. Il tema del film è proprio il bisogno d’amore della protagonista. Se c’è un divieto di incontro non hai la possibilità di vivere un sentimento, che negli adolescenti è forte ed esasperato».

I due attori protagonisti sembrano portare nel film il loro vissuto, le loro inquietudini. Quali sono le loro storie?
«Prima di fare il film stavo lavorando su personaggi reali, i personaggi che interpretano Daphne e Josciua sono stati scritti su personaggi che avevo incontrato veramente in carcere. Queste biografie sono confluite nei personaggi. Come attori cercavo delle persone che fossero vicine a questi personaggi. Quando cercavo il carcere in cui ambientare il film, siamo andati a Milano, al Beccaria, e c’era un ragazzo che stava uscendo, proprio mentre stava per nascere sua figlia. Ho fatto il provino davanti all’ospedale il giorno in cui è nata. In carcere aveva già recitato. Daphne l’ho incontrata in una trattoria romana, dove faceva la cameriera, non aveva mai recitato e non ne aveva l’intenzione. Aveva una grande malinconia nel viso bellissimo, e aveva passato esperienze molto dure, che la rendevano simile al suo personaggio».

Fiore
Daphne Scoccia. Bim Distribuzione

Quanto ha contato girare in vere strutture di detenzione, e che atmosfera si respirava?
«Abbiamo girato nel carcere minorile dell’Aquila, che era stato evacuato dopo il terremoto, ristrutturato e mai più riconsegnato. Abbiamo girato anche a Roma, ma sarebbe stato impossibile conciliare la vita dell’istituto penale con gli orari della troupe. Quello dell’Aquila era un carcere vero, ci abbiamo portato molti ragazzi con esperienze di detenzione, e anche veri poliziotti. È un film che non poteva essere girato da attori in un teatro di posa, era un lavoro che necessitava il maggior dato di verità possibile. Anche la storia d’amore tra le due ragazze è qualcosa che ho conosciuto durante la documentazione: storie d’amore che finivano perché qualcuno usciva, o veniva trasferito».

Nel film si vede anche una madre con un bambino che vive con lei in carcere…
«Per fortuna c’è la possibilità che una madre cresca il figlio, e che non ci sia un ulteriore separazione, che sarebbe ancora più traumatica e dolorosa di quella tra maschi e femmine. Quello che ho visto nella realtà del carcere è il volto umano della polizia: le agenti hanno un aspetto materno, aiutano le madri, nel film vediamo che tengono in braccio il bambino a una mamma mentre è nel laboratorio».

A livello di forma e di linguaggio, che scelte ha fatto per raccontare questa storia?
«Abbiamo scelto di fare il film tutto dal punto di vista di Daphne. Doveva essere il racconto di una storia d’amore in carcere dal punto di vista di una ragazza. Josciua lo vedi solo quando lo vede lei. Le inquadrature sono tutte sul suo volto, per raccontare l’intimità, le emozioni bisogna stare accanto al volto. La fotografia è di Daniele Ciprì: avevo lavorato con lui nel mio film precedente, “Alì ha gli occhi azzurri”, che era tutto girato in esterni e per il quale avevamo scelto una fotografia molto grigia, cupa. Essendo questo un film al femminile, volevamo uscire dal cliché del mostrare il carcere in maniera cupa, volevamo raccontarlo usando il colore. Il film ha dei colori accessi, volevamo che l’immagine vivesse dei sentimenti che vive la protagonista. Il Capodanno viene raccontato come il ballo di un liceo nei film dei college».

Fiore
Il regista, Claudio Giovannesi. Bim Distribuzione

Come il cinema italiano racconta  il sociale, secondo lei?
«Trovo riduttivo il concetto di film sociale, mi fa venire in mente più un’indagine, un’inchiesta. Il cinema dovrebbe essere più complesso. Per me è più bello utilizzare la parola realtà. Raccontare la realtà degli esseri umani è qualcosa che il cinema, come mezzo, può fare molto bene. Ci sono in Italia molti registi che lavorano sulla realtà in maniera poetica, che è la cosa importante che deve fare un film. Il rischio è di finire in cose più fredde, televisive, che hanno meno a che fare con la complessità dell’immagine cinematografica, e la forma del racconto cinematografico».

Come avete scelto di utilizzare due canzoni come “Sally” e “Maledetta primavera”?
«Sono due canzoni che stavano già in sceneggiatura. “Sally” doveva essere una canzone che ipoteticamente sentiva il papà di Daphne da detenuto, un pezzo non contemporaneo ma di grande forza emotiva: sapevamo che sarebbe stata la prima volta che Daphne sorrideva, perché aveva ricevuto un lettore mp3 in carcere. E poi parlava di una ragazza. Abbiamo scelto “Maledetta primavera” perché serviva una canzone d’amore per ballare un lento, e abbiamo utilizzato la grande tradizione della musica italiana».

Immagine di copertina Bim Distribuzione

FIORE: AMARSI A 16 ANNI, IN CARCERE

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