IN OGNUNO LA TRACCIA DI OGNUNO: RIPENSIAMO LE NOSTRE COMUNITÀ

In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, il Centro Astalli ricorda che è necessario scegliere tra la diffidenza e la responsabilità

La fuga dal Mali, passando per l’Algeria, la Libia e poi con un barcone fino all’Italia. La storia di Moussa, giovane rifugiato nel nostro paese, è simile a quello di tanti altri disperati fuggiti dalla loro patria in cerca di una vita migliore e della libertà: «Andava tutto bene, poi un colpo di Stato e sono finito in un campo militare e mi hanno torturato. Ora vorrei studiare per diventare avvocato e tornare a casa». Un viaggio verso un riscatto che però, come tanti altri, è stato segnato dalla tratta, dalle violenze e dalla riduzione in schiavitù.

Un racconto di uno dei tanti invisibili che vivono in Italia (ne abbiamo parlato qui) e che ha aperto il colloquio sulle migrazioni, organizzato dal Centro Astalli di Roma in occasione della Giornata mondiale del Rifugiato 2020 che si celebra il 20 giugno, con il titolo “In ognuno la traccia di ognuno. Con i rifugiati per una nuova cultura dell’accoglienza e della solidarietà”. Il colloquio ha visto la partecipazione del vescovo di Bologna, il cardinale Zuppi, del prefetto del Dicastero per la Comunicazione del Vaticano, Paolo Ruffini, della filosofa Donatella di Cesare e del presidente del Centro padre Camillo Ripamonti.

La scelta

Un’invisibilità che la pandemia ha reso ancora più drammatica, ma che potrebbe trasformarsi in un’opportunità, se fossero superate le barriere ideologiche che ci impediscono di diventare una comunità. Il virus, ne è convinto monsignor Matteo Maria Zuppi e l’isolamento per fermarlo, «possono aiutarci ad allargare i nostri orizzonti. Ci relativizza nell’idea di pensarci da soli e di chiuderci. Ci ha fatto capire che siamo universali. Era una presunzione pensare di poter vivere sani in un mondo malato». Ora dobbiamo scegliere «se vivere nella diffidenza o nella responsabilità reciproca, ricordando che siamo tutti nella stessa barca e avere attenzione gli uni verso gli altri».

La sicurezza e l’umanità

Ma come? Anzitutto cominciando a cambiare le regole: rivedere il Trattato di Dublino, come ha ben specificato la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese in un messaggio inviato al centro Astalli, «in un politica sinergica con gli altri Paesi europei per un’equa ripartizione degli oneri e quindi migliori strumenti di tutela delle esigenze dei richiedenti asilo e rifugiati». Ma, e soprattutto, cercando di superare i danni causati dalla politica sovranista. Due spettri, secondo la filosofa Donatella Di Cesare, aleggiano in Europa e soprattutto in Italia: «lo spettro del sangue e quello del suolo. La terra è mia per diritto di nascita». Una pericolosa “democrazia etnocentrica”, creata anche dalla politica, non solo recente, che ha sempre trattato «l’immigrazione in maniera securitaria e non umanitaria».

E se non faremo i conti con “le ferite ancora aperte” degli accordi con la Libia e con la Turchia non potremo affrontare la grande sfida della coabitazione che ci aspetta: «Il luogo in cui viviamo», ha spiegato, «non è un possesso o una proprietà. I cittadini non sono comproprietari del territorio nazionale e non hanno diritto sovrano di decidere con chi coabitare e chi escludere o discriminare. Abbiamo bisogno di pensare a una nuova comunità».

I corridoi umanitari

Ed è proprio ai centri per i rifugiati in Libia, in Grecia e in Turchia che volge lo sguardo padre Camillo Ripamonti (il cui intervento si può leggere qui), chiedendo ai governi europei quei corridoi umanitari che consentano «vie legali di spostamento e ingresso in Europa, perché non possiamo lasciarli morire in mare e sulle frontiere o accontentarci di politiche di sicurezza».

Il mondo non può essere diviso in “noi e loro”, secondo Paolo Ruffini: questo atteggiamento è quello che ha creato la paura dell’altro, del diverso e nell’emergenza sanitaria si è focalizzato sull’“untore”. Ma tutti potremmo essere untori e unti o invisibili se non ci vengono riconosciuti i nostri diritti.

 

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