IN VIAGGIO SULLA “BARCA DEI FOLLI”

È il libro in cui Stefano Dionisi racconta il suo viaggio nel disagio psichico. Un racconto lucido, sincero e carico di empatia

«Noi eravamo lì per un miracolo, per un’assoluzione laica per le nostre follie e per i nostri amori. Noi eravamo lì per non dover più piangere per i nostri cari, per non suicidarci, per riprendere a mangiare, ma senza che ci venisse data alcuna indicazione chiara che riaffermasse foss’anche una falsa verità per la risoluzione dei nostri problemi».
Il “lì” è il reparto di psichiatria di un ospedale. E il “noi” è la varia umanità che ci si è ritrovata dentro fino al collo. Non è un caso che usi il “noi” Stefano Dionisi, il famoso attore che nel libro “La barca dei folli” racconta la sua odissea nel disagio psichico, il suo ricovero in varie strutture ospedaliere e il suo percorso verso la guarigione.
«Tutto il libro cerca di raccontare più quello che sentono gli altri, e che io riesco a cogliere, che la parte autobiografica», ci ha raccontato Dionisi. «Il salto che fai quando inizi le cliniche psichiatriche è fatto di grande dolore, di momenti di solitudine, di empatia con qualche paziente, grazie al quale le ore passano più velocemente. Quello che si racconta nel libro è un’atmosfera dolente che colpisce tutti i personaggi. Ho cambiato qualcosa perché volevo che non fosse un libro oscuro, pessimista. Si incontrano persone con disagi che arrivano fino a quasi a togliersi la vita, grossi disagi del cuore, della mente e dell’anima che si mischiano in questi saloni dove ci ritrovavamo».

Le storie magiche

L’Odissea di Dionisi è iniziata in Spagna, in un paesino sperduto dell’Extremadura, dove l’attore di “Farinelli – Voce regina” stava girando un film su Sant’Antonio. Una fuga nella notte, scendendo da una macchina in piena autostrada, e poi il tentativo di rifugiarsi sul tetto di una casa. Da qui sono venuti l’abbandono del set, il rientro a casa e il ricovero in un ospedale di Pisa, nel reparto di psichiatria, dopo un Tso. Ne “La barca dei folli”, Dionisi racconta con empatia e lucidità un ambiente ricco di un’umanità varia. Personaggi problematici, ma vivi, profondi. Giovanni il Battista, il Furioso, il Toscano. E l’aspirante suicida per amore, un ragazzo che una notte Dionisi incontra in corridoio, e a cui dice parole che forse sono senza senso, ma che in quel momento possono aiutarlo.

Barca dei folli
Stefano Dionisi, attore, ha pubblicato “La barca dei folli”

Perché quando uno soffre di problemi psichici è fragilissimo, e cerca aiuto dappertutto, da ricevere ma anche da dare. «Non avendo una vera libertà, quando sei all’interno di una struttura che si chiama “semichiuso”, dove incontro l’aspirante suicida, la parola è tutto quello che ci resta» riflette Dionisi. «Le giornate sono sempre uguali, si chiacchiera molto e si condividono i problemi di tutti. Nel caso dell’aspirante suicida è una sensazione estrema. Tutto quello che gli dicevo non aveva nessun senso, è un esempio che serve per far capire quanto sia importante inventarsi delle storie magiche per uscire fuori dal normale parlarsi, per creare più empatia. Più partecipi alle cose che succedono nel luogo dove sei più è facili che arrivi a una via di guarigione».

La freddezza dei medici

È incredibile come Stefano Dionisi riesca a farci sentire nei suoi panni. In tutta la prima parte del libro ci sembra di vivere un incubo, di sprofondare in un baratro, come in certi film dell’orrore dove si cerca di scappare ma non si può, non si trova mai quella dannata porta d’uscita. Mentre leggiamo il libro siamo tutti lì dentro, con lui e gli altri pazienti. “La barca dei folli” è fatto di descrizioni minuziose di atmosfere e ambienti, di luci e odori. E poi ci sono i medici. Da cui si vorrebbe sapere un indizio, qualcosa che faccia capire se la strada è quella giusta, se ci sarà, e soprattutto quando, una via d’uscita. Quello con i medici è un rapporto che non c’è, quando il grande Prof ti sorride con un fare che ti fa sentire “merde incapaci di stare al mondo”. È un rapporto freddo, distaccato. «Il problema dei grandi ospedali è che ci sono tantissimi pazienti», spiega l’attore. «E devi seguire un modello terapeutico. Ho messo quella battuta perché aveva sempre una faccia enigmatica, un sorriso particolare. Ma poi rivaluto il personaggio nel passaggio in cui esco dal padiglione, lo vedo in macchina e parlo con lui. Era anche uno che partecipava ai miei problemi. Ma l’ospedale aveva delle urgenze così grandi, che il tutto diventa estremamente freddo. Non è un professore che invia i suoi pazienti a fare psicoterapia. È estremamente razionale, dedito alla ricerca di un farmaco che possa salvare i pazienti. Ci sono tante strade, tanti professori diversi con metodi diversi».

I farmaci non bastano

«Spesso le pillole non si riescono a inghiottire, non per la loro dimensione ma per l’immenso valore che hanno per noi. Ci possono salvare, ma sotto sotto non ci crede nessuno». Nel reparto di psichiatria le giornate sono scandite dalla somministrazione dei farmaci. Poche notizie, o nessuna, sul loro perché, sui possibili progressi, su una possibile fine della cura. Medicine che da sole non bastano a curare la mente. «Nel libro, quando parlo con il mio psicologo, specifichiamo che il lavoro della psicoterapia deve camminare di pari passo con una terapia farmacologia», precisa l’attore. «Non sono contrario alle terapie farmacologiche, ma penso che più sostegno ha un paziente con una malattia così particolare, più possa riprendere una vita normale».
In momenti come questo si cerca anche Dio, anche se si è smesso di credere a dodici anni. E si viene respinti da un frate perché non ci si confessa da troppo tempo. «Il libro inizia con il diacono e il barbiere» spiega Stefano Dionisi. «Sono le prime due cose che entrano nell’ambiente. Se fosse passata una psicanalista sarei andato da lei. È passato il prete e sono andato dal prete. È come quando non puoi cambiare il menu. Uno si fa dei sogni, dei castelli per la disperazione e dice “andiamo in chiesa, male non mi può fare”. Magari non era la cosa giusta da fare. La cosa che ho scritto è vera, e ora fa quasi ridere. Il francescano mi ha detto così e me ne sono andato. In realtà anche andare in chiesa significa inventarsi la giornata. Quando sei in una struttura del genere non hai più alcuna identità sociale. Tutti i pazienti hanno delle grandi doti, ma non vengono approfondite. È come galleggiare nel mare, senza che nessuno trovi il posto dove approdare».

Ricominciare si può

L’approdo di Stefano Dionisi è stato il suo lavoro. Non è stato facile ricominciare. Il racconto di Dionisi passa anche per una dolorosa esperienza di ripresa, una produzione a Praga, dove l’attore, dopo una giornata di prove, viene avvicinato dal regista che gli dice “non sei pronto per questo personaggio, lo faccio per te”. «Ho avuto la fortuna, dopo la sventura che mi è successa a Praga, di tornare a Roma e lavorare con la Archibugi, anche se con problemi assicurativi», ci racconta Dionisi. «Il prodotto che ho fatto dopo ha funzionato e ho ripreso a lavorare. Sono stato fortunato. Anche se i primi anni sono stati difficilissimi. Questo mondo alla fine si è chiuso dopo otto anni». Con fatica, sacrifico, ma ricominciare si può. «Quando sono ritornato sul set, cercavo di aiutarmi con lo sport» ricorda. «Ero un attore abile a lavorare. Il resto del tempo lo passavo a curarmi le ferite, a riflettere, fino a che non è nato questo libro».
La via d’uscita è stata la terapia freudiana, seguita dalla terapia di gruppo. La risposta ai mali si trova nel passato, e nell’abbandono del padre quando Stefano aveva l’età di cinque anni. L’ha rivisto venticinque anni dopo, una volta diventato a sua volta padre.

Chiudere gli OPG

Dopo la legge Basaglia i manicomi non dovrebbero esistere più. Ma i reparti psichiatrici degli ospedali a volte somigliano molto a questi. Si andrà mai oltre i manicomi? «Io penso che se si dovesse cominciare a lavorare veramente sugli ospedali psichiatrici per farli sembrare meno dei manicomi bisognerebbe iniziare dagli ospedali psichiatrici giudiziari, dove le persone sono abbandonate come cani nelle celle», ci risponde Dionisi. «Lo Stato fa morire le persone lì dentro, imbottite di medicinali, senza alcun controllo medico – lo psichiatra viene ogni sei mesi – e quella è la violenza più grande. Le associazioni dovrebbero cominciare a combattere per questo. Per queste persone che non hanno difese di nessun tipo».

Copertina de "La barca dei folli" di Stefano Dionisi

Stefano Dionisi
“La barca dei folli”
Mondadori 2015

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