#IOSIAMO: IL VOLONTARIATO CI INDICA IL FUTURO

Un volontariato che si basa sul concetto di fratellanza e costruisce comunità, merita di diventare patrimonio immateriale dell’umanità

Il volontariato. Qualcosa che oggi va al di là del concetto di solidarietà, per basarsi sul concetto di fratellanza. Qualcosa che crea dipendenza, perché una volta che si inizia a donare il proprio tempo e le proprie forze non si può più smettere. Un valore che merita di diventare patrimonio immateriale dell’umanità presso l’UNESCO. Il volontariato è oggi probabilmente il miglior vaccino non solo contro la pandemia, ma contro la cultura dell’individualismo e del profitto. Sono alcuni degli spunti che sono emersi alla presentazione del libro #IOSIAMO – storie di volontari che hanno cambiato l’Italia (prima, durante e dopo la pandemia), di Tiziana Di Masi e Andrea Guolo (Edizioni San Paolo), che si è tenuta il 30 agosto, a Roma, al CineVillage Parco Talenti. Oltre agli autori erano presenti Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita; Paola Capoleva, presidente di Csv Lazio; Maria Quinto, responsabile del progetto Corridoi Umanitari della Comunità di Sant’Egidio, e Sabrina Schiavone Bonfante, di Colomba Express.

Abbiamo così conosciuto tante storie di volontari. Come quella di Mamma Africa, una signora calabrese di novant’anni che aiuta i migranti africani nella sua Calabria. Quella di Mario e Lucia, due coniugi anziani del mantovano, che, in seguito alla malattia di lei, il Covid, si sono visti aiutare da una famiglia di profughi siriani che avevano accolto nell’appartamento adiacente al loro. Quella di Sabrina, ipocondriaca che si è trovata – per un voto – a combattere le sue paure e a lavorare a un servizio di lavanderia per i senzatetto. E quella di un volontario di Padova, che opera a stretto contatto con i detenuti, che si è trovato ad accompagnare a un incontro un condannato per omicidio, e ha visto crollare il muro che si era costruito attorno in 17 anni di carcere davanti alla domanda di una bambina: «Perché non ci hai pensato due volte prima di uccidere?». Ma sono solo alcune delle storie che trovate nel libro #IOSIAMO (ne abbiamo parlato qui).

La fraternità come visione del domani

La presentazione del libro a Roma è stata l’occasione per ascoltarle, ma anche per fare una riflessione su che cos’è il volontariato oggi, a un anno e mezzo dall’inizio della pandemia.

#Io siamo
La presentazione di “#Iosiamo” a Roma: da sinistra, Mons. Paglia, Sabrina Schiavone Bonfante, Paola Capoleva, Maria Quinto

«Il virus ci ha fatto scoprire che siamo tutti fragili, nessuno escluso: né le persone né le istituzioni», è la riflessione di Monsignor Vincenzo Paglia. «Per difenderci dobbiamo distanziarci. Ma siamo tutti uniti, che lo vogliamo o no. C’è la fragilità da una parte, l’interconnessione dall’altra. Significa che se vogliamo essere saggi abbiamo una sola chance, scegliere l’interconnessione come una prospettiva economica, politica, sociale, spirituale. Scegliere la fraternità come la visione del domani. Fraternità e non solidarietà: nella dimensione della fraternità c’è quello che vorrei cogliere come il cuore del volontariato. Si dice “la mia libertà inizia dove finisce la tua”. Ma ormai siamo tutti legati, non possiamo più fare questo ragionamento. È un obbligo. Credo che le storie di questo libro ci indichino la strada che dobbiamo percorrere da qui in avanti: quella della gratuità, del dono. In una società dove il mercato, il profitto, l’economia sono il nuovo altare sul quale si sacrifica tutto, l’unica pietra di inciampo è la gratuità, il dono, il volontariato».

Ma dopo la pandemia tutto questo è diventato più forte o più debole? «Durante la pandemia abbiamo visto una crescita del noi», commenta Paglia. «Come accade adesso, con la crisi afgana. Ora è successa una cosa singolare: moltissimi italiani, più di prima, hanno scoperto il dramma dell’emigrazione. Siamo disposti a donare, è un frutto che dobbiamo cogliere. Offrire la propria vita al servizio degli altri è il miglior vaccino».

Un contagio del bene

«Credevo di accogliere i profughi, ma sono io che sono stato accolto». È quello che ha detto Mario, uno dei coniugi mantovani di cui vi abbiamo raccontato qui sopra. Se i rifugiati siriani che si sono trovati ad aiutarlo sono qui in Italia è grazie al lavoro della Comunità di Sant’Egidio, e del progetto Corridoi Umanitari. «È una risposta forte che la Comunità di Sant’Egidio ha messo in campo, successivamente alla strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013», racconta Maria Quinto, responsabile del progetto. «A Lampedusa c’erano dei parenti delle persone che avevano trovato la morte, che si aggiravano nell’hangar del porto. C’erano persone che, come un cittadino tedesco che viveva in Germania ormai da 20 anni e aveva un’azienda con 30 dipendenti, avrebbero potuto tranquillamente sostenere un aiuto, ma non avevano trovato un modo legale per far arrivare le persone. Così abbiamo iniziato a cercare il modo di ottenere dei visti, promettendo che avremmo pensato noi all’accoglienza per un anno».

«La forza del noi è stata una scoperta, non ci aspettavamo, ai primi arrivi, tante persone italiane che hanno dato la disponibilità». Della famiglia che ha aiutato Mario fa parte Ramia, che è la seconda di tre sorelle siriane che, grazie al progetto e alla disponibilità della gente del paese, è arrivata in Italia da un campo profughi del Libano. «C’è stato un contagio positivo, un contagio del bene» commenta Maria Quinto.

Il volontariato crea dipendenza

Sabrina Schiavone Bonfante è riuscita a mettersi in gioco nell’ambiente più ostico per lei. Sabrina infatti è ipocondriaca, è ossessionata dall’igiene. Mentre si trovava in un pronto soccorso romano, in attesa di una diagnosi che sperava escludesse un’ischemia per suo marito, ha visto un gruppo di senzatetto. E ha deciso di fare un voto: ha promesso a Dio e se stessa che se la tac avesse escluso l’ischemia si sarebbe impegnata per loro. Così è andata a Fidene, e ha iniziato a collaborare con Colomba Express, realtà che fa parte de Le Opere del Padre, l’associazione di Claudia Koll. E a lei, ipocondriaca, è toccato il compito di smistare gli indumenti sporchi.

storie di volontari
La copertina del libro #iosiamo

«Le persone ipocondriache sono concentrate totalmente su se stesse», commenta Sabrina, «sul proprio corpo, sui propri dolori. Mio cognato mi ha detto: “basta pensare a te stessa”». «Avevo un’idea del volontariato completamente diversa da quella che ho trovato», riflette. «Pensavo di andare lì un giorno alla settimana, fare le mie ore, ed essere a posto con la coscienza. Il volontariato ha cambiato il mio modo di pensare: non vai a fare qualcosa, vai a relazionarti con le persone. Ero a Milano nel periodo della pandemia e ho cercato una realtà anche lì, perché il volontariato crea dipendenza». Con la pandemia il lavoro delle lavanderie è cambiato, c’è maggiore attenzione, prima gli indumenti si mettevano in lavatrice o in base ai tessuti, ora c’à una lavatrice per ogni persona. Ma la cosa più difficile è un’altra. «Con le mascherine, le visiere e il distanziamento quello che manca è il contatto» ci spiega Sabrina. «Le persone hanno bisogno di essere abbracciate, toccate. Io avevo superato la mia ipocondria, ma con la pandemia sono tornata un po’ indietro».

Il volontariato patrimonio dell’umanità

Paola Capoleva, presidente Csv Lazio, è una delle persone più adatte ad avere il “polso” del volontariato ai tempi del Covid. «La pandemia, con il fatto che ci ha costretto tutti quanti a collegarci con le piattaforme, ci ha permesso di arrivare a molte più associazioni di prima», racconta. «Molte ci hanno chiesto “cosa possiamo fare in sicurezza?”. Così, tra le altre cose, abbiamo potuto distribuire oltre 60mila mascherine. Le associazioni hanno chiesto un cambiamento ai Csv proprio in termini di sicurezza, per poter stare sul campo senza rischiare o portare rischi ad altri. Abbiamo detto: “il volontariato non si ferma”. Abbiamo fatto anche due video, uno sul magazzino Covid sulla via Ardeatina che distribuiva una serie di strumenti e uno su un’associazione che su Roma Termini distribuisce pasti. Il nostro compito è stato quello di diffondere informazioni, aiutare chi sta sul campo».

Ma c’è un’idea che rende bene l’importanza del volontariato oggi. «Il 6 giugno è stata fatta la proposta di nominare il volontariato come patrimonio immateriale dell’umanità presso l’UNESCO» racconta Paola Capoleva. «Pensare che il volontariato sia un patrimonio immateriale dell’umanità significa dargli il valore che merita. È veramente l’anticorpo, e non solo della pandemia. Ora lo sta dimostrando anche con la crisi afgana. Come Csv stiamo partecipando all’accoglienza nei covid hotel dove stanno arrivando tanti bambini, ci stiamo occupando della prima accoglienza di tantissime persone, intorno a noi c’è una rete enorme di persone e associazioni che vogliono fare la loro parte. E questo testimonia quanta fratellanza ci sia nella nostra comunità. Anche Zamagni parla di fratellanza. Perché la scelta personale è indispensabile, ma se non c’è una comunità intorno che la raccoglie è difficile che possa segnare un cambiamento». Questa comunità a Roma e nel Lazio resiste, è fatta da piccole e grandi realtà. «Qualche mese fa abbiamo firmato un protocolla con l’ANCI, l’associazione dei comuni, perché pensiamo che la collaborazione tra istituzioni pubbliche e associazioni di volontariato non debba essere un fatto episodico, ma una cosa costante», ha concluso la presidente del Csv Lazio.

 

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