MIGRANTI: GUARDIAMO IN FACCIA LA REALTÀ. DATI ALLA MANO

Lavorano, partecipano, fanno volontariato, vogliono integrarsi. E allora perché abbiamo paura di loro? Sarebbe meglio valorizzare la loro presenza...

Negli ultimi giorni dell’anno si è riacceso il dibattito sulle dimensioni dell’immigrazione in Italia, visto il calo degli sbarchi, che ha fatto dire a qualcuno che  l’immigrazione in Italia “non è più un’emergenza”. In realtà, probabilmente, non lo è mai stata, ma la narrazione dei fenomeni migratori che ci è arrivata dai media e da alcune parti politiche in questi anni non corrisponde alla realtà. «È una rappresentazione da bar sport, che poi è diventata parlamentare», ci ha spiegato Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia dei processi migratori e sociologia urbana all’università degli studi di Milano, e responsabile scientifico del Centro studi sulle Migrazioni nel Mediterraneo di Genova, che abbiamo incontrato a Capodarco di Fermo, al Seminario di Redattore Sociale “Guerra e pace”. La rappresentazione mediatica di questo fenomeno ci parla sempre di un’immigrazione in aumento drammatico, a volte definito «esponenziale», senza nemmeno sapere cosa voglia dire questo termine. Si pensa che l’asilo sia la ragione prevalente, e si confondono spesso migranti e richiedenti asilo. La percezione che tendiamo ad avere, seguendo media e politici, è che gli stranieri in Italia siano soprattutto provenienti da Africa e Medio Oriente, prevalentemente maschi, e di religione musulmana. Si pensa, inoltre, che la presenza degli stranieri sul nostro territorio sia gravosa per lo Stato.

 

Maurizio Ambrosini, sociologo

I DATI . Per fortuna ci sono dei dati di cui disponiamo, c’è un’evidenza statistica. E ci dicono altre cose. Ad esempio che l’immigrazione è stazionaria da cinque anni, l’aumento è stato del 6,8% in 5 anni, cioè poco più dell’1% all’anno. Parliamo di circa 5,5, milioni di persone. I motivi sono soprattutto il lavoro e la famiglia: arrivano molti giovani adulti e poi fanno il ricongiungimento in Italia. Un milione e mezzo sono persone che arrivano dall’UE, cittadini comunitari che non hanno bisogno di nessun permesso.

L’asilo, in tutto questo, è marginale. Parliamo di circa 0,17 milioni di persone in accoglienza, e 300.000 in tutto secondo i dati UNHCR. «Quando sento anche persone ben intenzionate che dicono il problema sono le migrazioni disordinate, dico che le uniche disordinate sono quelle interne all’UE, quelle per cui gli inglesi, facendo malissimo, hanno votato la Brexit proprio per fermarle, quelle che non hanno bisogno di nessun permesso» commenta Ambrosini. Oggi in Italia ci sono un milione e 300 mila persone di seconda generazione, 840mila ragazzi nelle scuole, 30.000 nelle università. Ma i dati smentiscono soprattutto la credenza sulla provenienza dei cittadini stranieri: quelli in Italia, oggi, sono in maggioranza europei, donne, cristiani. 2milioni e 400 mila immigrati sono regolarmente occupati il 10,6% dell’occupazione. I pensionati sono il 4%. La presenza degli stranieri è quindi benefica per tasse, contributi e consumi.

 

europe for all

I DIRITTI UMANI. Siamo in un contesto di restrizioni dei confini da parte degli Stati, che aprono degli spazi per attori non statali. I diritti umani oggi sono difesi sempre più da soggetti privati. «Quando le persone contestano i sostenitori dei rifugiati, con argomentazioni del tipo “ma portali a casa tua”, di fatto stanno dicendo che i diritti umani non esistono più, e se uno vuole fare accoglienza la deve fare a spese sue», riflette Ambrosini, svelando un paradosso. «Pensate se facessimo questo discorso con i malati o i disabili».

«Persone che fino a qualche tempo fa erano considerati degli eroi a un certo punto si sono trovati a essere nemici dell’Italia, a gettare cortine di fumo ad altre persone per non dire quello che facevano, per evitare la stigmatizzazione», ragiona l’economista. «Tutti quelli che lavorano per altri settori del disagio è pacifico che percepiscano uno stipendio, che ricevano delle rette, che vogliano tenere i conti in ordine: non è contestato in radice che ci sia un circuito economico. Quando si parla di rifugiati, invece, che ci siano degli occupati in questo settore è stato trasformato in un disvalore».

 

LA CITTADINANZA DAL BASSO. Gli immigrati non hanno la cittadinanza politica, ma questo non vuol dire che non siano cittadini. Esiste anche una cittadinanza dal basso. Essere cittadini vuol dire partecipare in varie forme alla vita della società e delle comunità che la compongono. «Un adulto contemporaneo, vecchio, maschio che, seduto sul divano, maledice la politica e non va a votare, ha tutti i diritti, ma rinuncia a un esercizio di cittadinanza», spiega Ambrosini. «Un immigrato che si tiene informato sulla società, scende in piazza, si iscrive al sindacato, fa parte movimenti e associazioni, fa volontariato, esercita una cittadinanza. La cittadinanza non è solo un pacchetto di diritti che vengono dall’alto, ma è qualcosa che si costruisce dal basso. Partecipare, contribuire alla società sono forme di cittadinanza. In queste forme rientra anche il volontariato, che porta un miglioramento alla nostra convivenza collettiva».
Possiamo parlare, allora, di atti di cittadinanza, che sono comportamenti intenzionali, spesso anche formalizzati. «Acquisire uno status regolare. ricongiungere la famiglia, mandare i figli a scuola, l’ingresso nel lavoro regolare, l’adesione al sindacato, l’avvio di attività d’impresa possono essere visti come atti di cittadinanza» ci fa notare Ambrosini. E anche la partecipazione al volontariato si colloca nella cornice degli atti di cittadinanza.

 

migranti e volontari
Dal Rapporto “Immigrati e Volontariato” di CSVnet e Centro Studi Medì

IMMIGRAZIONE E VOLONTARIATO. Il volontariato, quindi, può essere visto come luogo di esercizio di forme cittadinanza. Uno studio di CSVNet e del Centro Studi Medì di Genova sul tema ci dice che, per gli stranieri, il volontariato è opportunità, formazione e consolidamento di legami sociali, sviluppo di competenze (linguistiche e pre-professionali) e per questo è una via di integrazione nelle società locali. Le forme di volontariato in cui gli stranieri sono più impegnati sono la donazione di sangue e organi, le associazioni e reti a base etnica, religiosa o generazionale (le seconde generazioni). E poi c’è un volontariato informale, o post-moderno. Il volontariato continuativo è praticato dal 55% dei soggetti, mentre è cresciuto il volontariato post-moderno, quello estemporaneo e saltuario: è praticato dal 28%. Il 17% ha lasciato il volontariato per impegni, spesso familiari. La metà dei casi presi in considerazione non faceva volontariato nei paesi di origine; un quarto fa volontariato a livello individuale, un quarto in associazioni. La causa sostenuta è la prima motivazione per fare volontariato. È importante la dimensione amicale: si fa volontariato perché si segue qualche amico.

 

STRANIERI VOLONTARI: PONTI DI RELAZIONE. Il volontariato porta benefici a chi lo coltiva. Permette di farsi nuovi amici, allargare la rete dei rapporti sociali. Chi pratica volontariato si sente più inserito nella società italiana, come forma di integrazione e come cittadinanza dal basso. C’è una piccola sorpresa, se andiamo a vedere i settori in cui fanno volontariato gli stranieri. Si tratta soprattutto di attività culturali e di promozione del patrimonio e degli usi e costumi e tradizioni (176 persone). In questo senso è interessante il caso del FAI, che ha formato delle persone straniere allo scopo di fare le guide di monumenti che richiamano il loro paese origine: ad esempio al Museo Egizio di Torino ci sono state delle guide egiziane. E lo stesso è avvenuto, in altri luoghi, con volontari di origine cinese o africana. Gli immigrati diventano allora testimoni, creano ponti di relazione.

 

UNA PALESTRA DI INTEGRAZIONE. Il volontariato allora può contribuire a una narrazione controcorrente, a uno sguardo diverso sull’immigrazione. «È una palestra di integrazione» conclude Maurizio Ambrosini. «Il volontariato non è importante solo per ciò che fa e per ciò che costruisce, ma per il circuito di relazione e di fiducia che fa girare». «Credo che il mondo associativo abbia una missione: non solo fare servizi a queste persone, ma anche favorire una nuova immagine della società civile,  dove i migranti diventano protagonisti attivi».

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