CRISI: L’ITALIA È BLOCCATA DA PAURA E RANCORE

Guardiamo al passato e non creiamo sviluppo. Così l'analisi del progetto Censis Conad presentato a Roma. Serve un immaginario collettivo nuovo, orientato al futuro

Abbiamo paura. E siamo arrabbiati. Mettiamo da parte il nostro piccolo gruzzoletto per difenderci da qualcosa di brutto – non si sa bene cosa – che dovrà accadere non si sa bene quando.
Diseguaglianze, aspettative decrescenti e nuove incertezze sul proprio posto nella scala sociale hanno generato una società divisa che non si protende al futuro, ma si difende, guardando al passato. I nostri valori, i miti che abbiamo costruito nel tempo, i sogni, le aspettative, i desideri che hanno formato le nostre priorità, influenzato i consumi  e definitivo la nostra agenda condivisa non sono più propulsivi, non producono crescita. Siamo diventati agenti di regressione. Lo confermava già il rapporto Censis del 2017, lo sperimenta ogni giorno un occhio un po’ critico sui social media e nella vita quotidiana. Siamo in crisi, e lo sapevamo. I consumi sono calati insieme alla produzione industriale e anche questo lo sapevamo. Ma nel tempo la deflazione delle aspettative, l’individualizzazione e il rancore hanno dato vita ad una crisi che da economica è diventata sociale, una categoria dello spirito.

E allora? Come ci siamo ritrovati così? E soprattutto, come ne usciamo? Come costruiamo un immaginario collettivo nuovo e soprattutto positivo? È da qui che prende le mosse il progetto Censis Conad presentato a Roma il 26 settembre. Un progetto in vari step aperto ai contributi dei cittadini, della politica e delle istituzioni, delle imprese pensato per essere spinta nella costruzione di un immaginario collettivo nuovo, orientato al futuro.

 

progetto censis conadUN CAMBIAMENTO EPOCALE. Quelle che a prima vista possono sembrare vuote riflessioni teoriche, hanno conseguenze tangibili, e di sistema. L’Italia è molto cambiata, come ha sottolineato Francesco Maietta, responsabile Area Politiche sociali del Censis. Nel dopoguerra e nel periodo della ricostruzione eravamo il paese di una voglia individuale e collettiva di non essere mai più poveri, di una convinzione profonda, diffusa e condivisa di potercela fare ed essere parte di un sogno collettivo realizzabile per tutti. «Cinema, radio e fotoromanzi prima, e la televisione poi, proponevano l’immaginario dello sviluppo e poi dei consumi, e generavano la voglia di farcela, nella convinzione di una mobilità sociale possibile».
Anni centrati sulla produzione, sul miracolo economico, sulla nascita Dell’industrializzazione, come ha spiegato il giornalista Luca De Biase. Con gli anni Ottanta arriva la trasformazione di  un paese che produce in un paese che consuma. Al centro non c’è più la fabbrica, sono gli anni del marketing, del design e della moda, dell’immagine e dello show. E forse « delle aspirazioni eccessive generate da trent’anni di pubblicità che poi si sono dimostrate inarrivabili in un paese che non produce abbastanza» ha spiegato De Biase.

Con il 2008 arriva la crisi. Che è dei consumi (meno 9%) e della produzione (meno 25%), ma che diventa stato d’animo, immaginario collettivo infetto. «Per la prima volta nelle famiglie», ha sottolineato Maietta, «si radica l’idea che si può tornare indietro, che le generazione a venire staranno peggio di quelle che le hanno precedute, che la mobilità sociale, quando c’è, è legata a fattori patologici». «L’incertezza è entrata nelle nostre case. All’idea di un tempo “se mi impegno ce la faccio” è subentrata l’idea “succedono cose che non capisco, mi devo tutelare”. Con effetti molto concreti: tra il 2015 e il 2017 si è registrato un più 110 miliardi di contante cautelativo».  L’unica certezza, come lo stesso Maietta ha più volte sottolineato, è che un immaginario collettivo negativo di rancore e paura non fa sviluppo.

 

I NUMERI. Nel 2018 il 60% degli italiani è convinto che le cose andranno sempre peggio, il 39% non ha alcuna fiducia nel futuro e c’è la convinzione diffusa che la mobilità sociale sia possibile non per merito e impegno ma solo grazie a fattori patologici, siano essi i contatti politici (per il 22%), le conoscenze (per il 28), la provenienza da una famiglia agiata (per il 18) o la fortuna (addirittura per il 34% degli italiani). Aumenta la percentuale di coloro che pensano che la condizione economica degli altri migliorerà più della propria (il 35% contro il 23% del 1998), mentre il 35% degli italiani non comprende quanto gli accade intorno. Aumenta così la paura, il rancore e la chiusura, che porta al pregiudizio. Quasi il 60% delle famiglie risparmia per gestire eventi inattesi, mentre si guarda indietro nella convinzione che “ si stava meglio quando si stava peggio” (vera per quasi il 70% degli italiani) e il 68% degli italiani si dice contrario al matrimonio della propria figlia con una persona più anziana, dello stesso sesso o che ha già figli.
Siamo un paese bloccato tra un presente che non vogliamo, un passato che rimpiangiamo e un futuro che non riusciamo a vedere.

 

progetto censis conadIL RUOLO DEL DIGITALE. Per Maietta non c’è misura di politica economica capace di invertire questo trend e ritrovare il sentiero della crescita se prima non cambia l’immaginario collettivo della paura e del rancore.

Ovviamente l’avvento del digitale è parte della trasformazione che abbiamo vissuto. Internet che individualizza, crea simboli frammentari e reversibili, influisce negativamente sulla formazione di miti e immagini condivisi. «Quando è comparsa la rete», ha commentato il filosofo Maurizio Ferraris durante la presentazione, «si sono prodotti fatti non calcolati: una vasta raccolta di dati così accurati e profilati da essere più utili del capitale finanziario; un mutamento nei media e nella comunicazione, non più da uno a tanti, ma uno a uno; una diversa consapevolezza del peso dell’elettorato nella politica, diretta dagli umori degli elettori e come tale incapace di essere rassicurante».  Per De Biase siamo arrivati al digitale con una mente televisiva, trasformando «Facebook in un insieme di mini televisioni, le persone in personaggi, gli influencer in piccoli grandi anchormen dei propri follower». E mentre siamo in una dimensione complessivamente regressiva, assistiamo all’aumento dei prodotti di maggior gratificazione.

Come costruire allora un immaginario collettivo alternativo? Le tre grandi narrazioni che ci hanno accompagnato finora – il sogno europeo, la globalizzazione, la rivoluzione digitale come opportunità di conoscenza e democrazia – sono naufragate, ha commentato il Direttore generale del Censis Massimiliano Valerii. «Sono venuti meno tutti gli elementi su cui abbiamo provato a costruire la nostra identità, mentre la disintermediazione digitale ha introdotto una frammentazione dell’immaginario collettivo del passato e della sua forza propulsiva».

 

RICOSTRUIRE UN PERCORSO PROATTIVO. È questo il nostro compito secondo l’Amministratore delegato di Conad Francesco Pugliese. «Serve un immaginario nuovo e condiviso da anteporre alla divisione che viviamo oggi. Serve verità perché il rancore è soggettivo, privo di basi veritiere». I media per De Biase hanno le loro responsabilità, si sono ghettizzati e ora hanno il compito di riconnettersi. «Mentre la produzione industriale calava del 25% e i consumi del 9», ha insistito, «le esportazioni hanno continuato a salire fino a superare i 450 miliardi di euro. Produciamo cose che il mondo vuole comprare: c’è un’Italia che sta nel mondo globalizzato, ma se ne accorgono solo in pochi». Se per Maietta servono progetti che creino fiducia e visibilità per le esperienze positive che già ci sono, per Valerii la ricetta della ripartenza è nel recupero della cultura del rischio di chi accetta di essere in un contesto rinnovato e guarda avanti. Perché senza il rischio non c’è aspettativa. La scommessa ora è rendere questo ottimismo contagioso.

 

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