NEWS E IMMAGINI: L’APPARENZA INGANNA

“Questione d’immagine ” è un’indagine su come si costruisce l'immaginario collettivo. È un progetto di "Redattore Sociale"

Susan Sontag diceva che fotografare significa appropriarsi di ciò che si fotografa. E criticava la fotografia perché, appropriandosi della realtà, miniaturizzava il mondo. Possiamo essere d’accordo o no. È vero che con la fotografia abbiamo conosciuto il mondo. Ma è anche vero che l’immagine prende significati diversi a seconda dei contesti. Per porre l’attenzione sull’uso che i media fanno delle immagini è nato il progetto “Questione d’immagine”, che segue lo spirito di “Parlare Civile” sul fronte delle immagini. È un’indagine sui meccanismi di costruzione dell’immaginario collettivo sulle tematiche sociali e i rischi di discriminazione delle minoranze, attraverso l’analisi delle fotografie e dei video dei media nazionali.  “Questione d’immagine” è finanziato da Open Society Foundations e promosso da Redattore Sociale, Parsec e Zona: presentato in anteprima lo scorso novembre al seminario “Rimozioni” a Capodarco di Fermo, sarà pronto e lanciato a breve, con un sito web.

Le immagini oggi hanno acquisito importanza sempre più importante, soprattutto con il web. Spesso chi guarda le foto sui giornali pensa che rappresentino la realtà. Ma non dobbiamo dimenticare che sono prodotte da un fotografo, che sceglie come e cosa inquadrare, quindi sono qualcosa di soggettivo. «Si può cominciare a costruire una consapevolezza della lettura delle immagini che vediamo tutti i giorni», secondo Giulia Tornari, editor dell’agenzia fotografia Contrasto e fondatrice dell’associazione Zona. Le tematiche selezionate sono le stesse di “Parlare civile” (9: aids, disabilità, droghe, genere e orientamento sessuale, immigrazione, povertà ed emarginazione, prostituzione e tratta, rom, salute mentale).

Le donne, le droghe e Kate Moss

Claudio Cippitelli, sociologo, ci ha raccontato come le immagini dei nostri media raccontano le droghe. Di droga non si parla molto: entra in scena quando rientra nell’agenda politica, o quando ci sono scandali. È stato spesso considerato un tema leggero, di costume. Un punto di svolta è stato il caso di Kate Moss. Nel 2005 viene ripresa da un fotografo mentre si fa di cocaina: per la prima volta non viene raffigurata una persona qualunque, che si fa in qualche posto sordido, ma una persona importante, in uno studio di registrazione. È la foto di un’epoca, con la droga di un’epoca: ci svela che la cocaina non è più il disagio, la malattia, ma un comportamento “normale” in certi ambiti. La famosa copertina del Daily Mirror, con il titolo “Cocaine Kate”, viene ripresa dai giornali di tutto il mondo. E anche da noi: Panorama titola “Cocaina pret-a-porter”, con tutte le foto di Kate Moss mentre si droga, e all’interno pubblica articoli che dovrebbero dissuadere dall’uso di droghe, ma hanno titoli del tipo “Tutti in pista”, con foto di Kate Moss in forma scintillante.

Ma il discorso sulla droga e le donne è più ampio. Sulle copertine dei nostri giornali la droga è quasi sempre accompagnata da immagini di donne, in articoli che vogliono essere di denuncia ma ammiccano a un immaginario di sesso e droga. Pensiamo alle copertine di Panorama con il titolo “Fermatevi!”, con in copertina una ragazza che si fa due strisce. L’Espresso, per parlare di “Spinello traditore” mette in copertina Asia Argento in una posa equivoca. Anche un giornale più serio come Geo, titola “Cocaina; tutto quello che non avete mai saputo”, e in copertina mette una ragazza bionda seminuda. Dai dati sul consumo di droghe è evidente che le donne fanno uso di droghe in misura molto minore rispetto agli uomini. Eppure nelle immagini sono sempre loro le protagoniste. «Sarebbe interessante invece parlare di consumi al femminile, perché le donne si rivolgono pochissimo ai servizi, forse gestiscono meglio le sostanze», riflette Ceppitelli. «Ci vorrebbe un approccio di notizie, di approfondimento» conclude il sociologo. «Di queste copertine ci siamo un po’ stufati».

Immigrazione: gli schiavi, il sogno realizzato e quello infranto

Di immigrazione ci ha parlato Raffaella Cosentino, con il caso di Rachid, ragazzo marocchino simbolo di riscatto: da venditore di accendini a laureato al Politecnico di Torino, una presunta lettera di rifiuto al Grande Fratello, e la Lega che gli propone le chiavi della città. «È una storia perfetta» riflette Raffaella Cosentino. «Quello che finalmente ce l’ha fatta. Ma in realtà è anche questo uno stereotipo. Il racconto avviene poco dopo il naufragio del 3 ottobre a Lampedusa. E l’eroe solitario che ce l’ha fatta funziona perché è legato all’altro stereotipo, quello che tutti gli immigrati sono miserabili che arrivano sui barconi». Tutto il racconto di Rachid si regge perché c’è l’altro racconto, quello del sogno infranto, della terra promessa che ti accoglie e ti tradisce. «La narrazione tipica è una logica tutta piegata sugli sbarchi» analizza la Cosentino. «È come se anche Rachid fosse arrivato qui su un barcone, da irregolare, cosa che non è vera».

L’empatia, chiave d’accesso a un’informazione diversa

A proposito di immigrazione, un caso trattato dai media è stato quello della rivolta di Rosarno, in Calabria. I giornali costruiscono la storia de “La rivolta degli schiavi”, si parla dello sfruttamento, ma si rientra sempre in un cliché, quello dello schiavo. Alcune immagini, come quella di un fotografo dell’Ansa, diventano il simbolo della rivolta: ma sono scatti che raffigurano gli africani come una minaccia. L’immagine con due persone che litigano contrasta con il racconto. «Anche se si vuole raccontare l’africano come vittima dello sfruttamento, le parole contano poco con immagini come queste, dove vediamo la violenza, lo scontro bianchi-neri, con i primi protetti dalla polizia dalla violenza dei secondi» ci spiega Raffaella Cosentino. «C’è una grande incoerenza tra parole e immagini». Ma ci sono anche le buone prassi. Come un servizio video del Tg2, firmato da Valerio Capaldi. Di solito in questi racconti non c’è mai una storia personale: qui invece abbiamo la storia di una persona, raccontata nella sua semplicità: Rose. «Credo che raccontare la realtà chiamando per nome le persone sia la cosa più importante da fare» ci ha spiegato Capaldi. «Costruire l’empatia per far capire che è necessario salvarli». «Sulla nave sono saliti per la maggior parte siriani» continua. «Ognuno di loro aveva un sacchetto sigillato con dentro il passaporto e si sono messi tutti in fila come se fossero all’aeroporto. È un’immagine che testimonia che sono persone che stanno viaggiando, con una partenza e una destinazione, e non sono persone che scappano. Hanno il passaporto. Anche se non un visto sopra». «Parlare di immigrazione ci costringe a prendere una posizione, schierarci e mandare messaggi» riflette il giornalista del Tg2. «Far vedere un volto che piange significa creare l’empatia, può essere anche rassicurante per chi si sente parlare di invasione e vede poi persone che hanno dei problemi e con i quali è possibile creare una sintonia».

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