CENTRO ASTALLI: I MIGRANTI SONO VITTIME DEL SISTEMA

Il Centro dei Gesuiti per l'accoglienza dei rifugiati compie 40 anni e ripete: le politiche migratorie non sono un problema di sicurezza, ma di rispetto della dignità della persona

Nel 1981 in via degli Astalli a Roma, veniva inaugurato il primo centro di accoglienza dei rifugiati guidato dai Gesuiti. Ogni anno questa sede presta servizio a più di 11.000 persone che arrivano in Italia in fuga da guerre, violenze e torture. A 40 anni di distanza, la rete del Centro Astalli  si è estesa in altre città italiane, garantendo non solo accoglienza e servizi per queste persone, ma anche sensibilizzazione dei territori sul tema delle migrazioni. Ne abbiamo parlato insieme a padre Camillo Ripamonti sj, presidente dell’organizzazione.

In questi quarant’anni, i tre verbi che guidano il vostro servizio ai rifugiati (accompagnare, servire e difendere i diritti), come sono riusciti ad adattarsi ai cambiamenti di epoca?
«L’intuizione di padre Arrupe (fu lui a spingere i Gesuiti di tutto il mondo ad occuparsi dei migranti) è stata quella di mettere al centro le persone, ascoltando i loro bisogni. I tre verbi, quindi, si sono adatti ai cambiamenti che queste stesse persone hanno dovuto affrontare e gestire. È scegliendo questo approccio che il Centro Astalli ha risposto alle diverse epoche e crisi che hanno portato donne e uomini a spostarsi dal proprio paese di origine: nei primi tempi accoglievamo curdi, kosovari, afgani, poi sono arrivati anche i rifugiati dei Paesi africani. La chiave è stata quella di mettersi in ascolto, per declinare poi, questi tre principi, nelle singole crisi e nei diversi periodi storici».

accoglienza dei rifugiati
Padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli

Com’è cambiata in questi anni la percezione comune del “rifugiato”?
«Negli anni è molto cambiata. L’anno di svolta è stato il 2001 (l’attacco alle Torri Gemelle), quando all’idea che il rifugiato fosse una persona che fuggiva da una situazione di pericolo per la propria vita, è subentrata quella di una persona da cui difendersi e proteggersi, collegata spesso con il terrorismo (tutto alimentato da una narrazione falsa sui migranti). Da quel momento anche le politiche migratorie sono state gestite esclusivamente come fenomeno di sicurezza, di controllo dei flussi, difendendo i confini da chi era portatore di qualche rischio nella società in cui arrivava».

Questione Polonia-Bielorussia. Secondo lei quali sono le responsabilità dell’Europa? Ha ancora senso di parlare di politiche europee sulle migrazioni, davanti a singoli Stati che su questi temi difendono la loro autonomia?
«Una narrazione errata del fenomeno ha fatto sì che le persone migranti diventassero strumenti in grado di spostare i risultati politici all’intero dei singoli Stati. Questi ultimi non hanno trovato linee comuni per affrontare il fenomeno. Piuttosto che affrontarlo in termini globali, si è preferito gestirlo in modo egoistico. Quelle politiche europee, che dovevano incentivare la solidarietà, sono diventate appannaggio dei singoli Paesi perché questo poteva avere ricadute elettorali. Tutto questo ha portato ad uno sgretolamento del diritto d’asilo, frutto di un interesse che è più verso i governi locali che in prospettiva delle persone».

accoglienza dei rifugiati
Padre Ripamonti: è necessario recuperare il senso profondo della dignità della persona

Quali strade suggerisce?
«Chi è chiamato a condurre le politiche dei prossimi anni deve rimettere al centro le vittime del sistema, i migranti. Abbiamo investito su politiche che hanno trasformato i diritti in privilegi e fatto sì che alcune persone più deboli fossero messe ai margini (pensiamo al diritto al lavoro, alla casa, alla salute messi a repentaglio dalla pandemia). È necessario recuperare il senso profondo della dignità della persona: è un vantaggio per tutti e per l’Europa».

Papa Francesco, visitando recentemente il campo profughi di Lesbo ha detto: «È un’illusione pensare che basti salvaguardare se stessi, difendendosi dai più deboli che bussano alla porta. Il futuro ci metterà ancora più a contatto gli uni con gli altri». Questo, prospettato dal Papa, è uno scenario concreto secondo lei?
«Sì, molto concreto. Già Papa Benedetto aveva ribadito che “l’essere in un mondo globale non ci rende fratelli”. Papa Francesco ha fatto un passo ulteriore, dicendo che in questo mondo che ci mette sempre più vicino gli altri, occorre diventare fratelli, costituire una vera comunità di vita, in cui ci si prende cura a vicenda. Il rischio è di continuare ad abitare una società in cui una guerra vista in tv non ci tocca, perché lontana da noi».

A livello internazionale quali riflessioni state portando avanti come Servizio dei Gesuiti per i rifugiati? 
«Due sono le questioni importanti. La prima è quella educativa. Abbiamo riscontrato il grave vulnus educativo che i rifugiati subiscono, spostandosi da un Paese all’altro. Molto spesso nei campi profughi le persone rimangono abbandonate a se stesse, muovendosi rischiano di perdere le proprie radici diventando anonimi. Si è cercato di non far perdere “vita” a queste persone garantendo istruzione finalizzata all’inserimento come cittadini.
L’altro aspetto è quello della riconciliazione. Le persone che scappano da situazioni di guerra, violenza, cambiamenti climatici, sono persone ferite (ferite che aumentano durante la permanenza nei campi libici, dove vengono torturati e abusati). Arrivando in un altro Paese è importante ricostruire il loro tessuto di relazioni, riconciliarli con la loro storia e con le persone con cui vengono a contatto. L’idea di un’integrazione che avvenga solo a senso unico è perdente, deve essere degli uni verso gli altri. Il futuro è diverso da come lo immaginiamo noi e da come lo immagina chi arriva da noi».

accoglienza dei rifugiati
Il progetto Finestre ha l’obiettivo di far incontrare studenti e rifugiati

Dalla storica sede via degli Astalli, la vostra rete ha coinvolto altre città italiane (Vicenza, Trento, Catania, Palermo, Padova). Non c’è più solo accoglienza, ma anche formazione civica…
«Nei primi anni Roma era il luogo di secondo approdo per la maggior parte delle persone che arrivavano in Italia; qui trascorrevano un certo periodo per poi spostarsi al nord per cercare un impiego. Negli anni è cambiata la geografia degli arrivi, anche altre regioni sono diventate luoghi in cui le persone vengono accolte e integrate. Un elemento che è venuto fuori è stato quello di sensibilizzare i territori al fenomeno migratorio, partendo dalle scuole. Come il progetto Finestre che ha l’obiettivo di fare incontrare studenti e rifugiati scappati da guerre agevolando un contatto che può far aprire mente e cuore».

Parlando proprio di giovani, esiste la possibilità di aprire nuovamente un dibattito (politico e culturale) sullo Ius soli?
«Mi auguro che venga riaperto al più presto. Spesso il tema della cittadinanza di giovani che sono in Italia già da tanti anni viene associato all’arrivo dei barconi. Questo ha confuso le idee nel panorama generale e a causa della paura è stata bloccata questa legge. Lo Ius soli e Ius culturae vanno in una direzione inclusiva di giovani che già si sentono parte di una comunità di vita insieme ai loro coetanei e che aspettano un riconoscimento formale di cittadinanza. La paura non prenda il sopravento e permetta una riflessione da parte di tutti, perché questi giovani sono il nostro futuro. Se li trattiamo come giovani di serie B, esclusi, il rischio è che poi questa ferita crei malumori nel tempo».

Leggi anche: RAPPORTO ASTALLI: LE VITE SOSPESE DEGLI IMMIGRATI (retisolidali.it)

 

 

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