BLACK LIVES MATTER: IL CINEMA AMERICANO CI AVEVA MESSO IN GUARDIA

Il cinema americano ha raccontato e denunciato il clima di discriminazione che impregna gli Stati Uniti, e che ha reso possibile l'uccisione di Floyd

Quello che è successo il 25 maggio 2020 a George Floyd, afroamericano di 40 anni ucciso a Minneapolis dalla polizia americana, purtroppo, non ci ha colto di sorpresa. Della situazione in cui vivono i neri negli Stati Uniti d’America siamo consci ormai da alcuni anni. Il cinema americano sta affrontando da tempo la questione, prendendola di petto.

Vedendo questi film ci siamo risvegliati bruscamente da quell’illusione che è stata l’Era Obama, un periodo in cui avevamo creduto che il primo presidente afroamericano della storia avesse finalmente cambiato le cose. Il brusco risveglio, invece, ci ha messo di fronte a una situazione allucinante. Le persone afroamericane, negli Stati Uniti di oggi, non vivono molto meglio degli anni in cui il Ku Klux Klan terrorizzava l’America, quelli della segregazione razziale, quelli in cui Martin Luther King e il movimento dei diritti civili si battevano per l’eguaglianza. Sembra di essere rimasti a sessanta anni fa. E non a caso, se molti film americani di denuncia sono ambientati ai giorni nostri, altri tornano indietro nel tempo. Per dirci che non è cambiato nulla. O per parlare del passato per raccontare il presente, come faceva Dante Alighieri con la Divina Commedia. A nulla è servita l’elezione del primo presidente afroamericano degli Stati Uniti, Barack Obama. Se un poliziotto ferma un nero e teme che sia armato, gli spara. Se ferma un bianco, gli dice semplicemente “mani in alto”. Il cinema americano oggi ci sta raccontando tutto questo. È finita la luna di miele con i propri politici, è finita l’Era Obama in cui il cinema provava a veicolare la speranza, anche nelle storie degli afroamericani. Il buio in cui sta precipitando l’America con l’amministrazione Trump sta dando vita nuovamente, com’era nell’era Bush, a un cinema di lotta.

 

cinema americanoXIII Emendamento

Il film illuminante, quello da vedere a tutti i costi prima di tutti gli altri è il documentario “XIII Emendamento” (2016), di Ava DuVernay (disponibile su Netflix), che ci racconta come il sistema americano, di fatto, continui a perpetrare la schiavitù dopo averla abolita da secoli. La chiave è tutta in quella clausola del XIII Emendamento della Costituzione americana, che vieta di tenere delle persone in schiavitù, tranne che come punizione per un crimine. E questa punizione per i crimini è stata usata come chiave dall’establishment per continuare a tenere in schiavitù il mondo degli afroamericani.

Gli Stati Uniti d’America sono il paese che ha il 5% della popolazione mondiale, ma ha il 25% dei detenuti del mondo, 1 su 4. Gli storici intervistati nel film ci spiegano allora che la schiavitù, in molti stati, era un sistema economico. Quando quattro milioni di schiavi furono liberati cominciarono ad essere arrestati per piccoli delitti al fine di mantenerli in schiavitù, di avere comunque la manodopera. Iniziò così il processo di criminalizzazione dei neri. Il violentatore afroamericano di “Nascita di una nazione” di David Griffith, del 1915, è un esempio di questo processo. Che andrà avanti, negli anni, tra violenze, criminalizzazioni, segregazioni. Gli afroamericani hanno sempre dovuto lottare per essere considerati esseri umani in piena regola. Una lotta frustrata da una politica che, da Nixon a Reagan fino a Clinton, ha sostituito il concetto di crimine a quello di razza.

Le continue politiche di lotta alla droga, come quelle sull’ordine pubblico, non hanno fatto altro che riempire le carceri e di continuare e definire i neri come criminali, a tal punto che loro stessi si sentono tali, e sono diventati una comunità continuamente sotto sorveglianza e sotto controllo. C’è una presunzione di pericolosità che li segue ovunque vadano. In un sistema legale come quello americano, dove conta più la ricchezza che la colpevolezza, sempre più afroamericani si dichiarano colpevoli anche se non lo sono, perché altrimenti rischiano di restare in carcere perfino più a lungo. Ma chi è stato in carcere viene privato di molti diritti, dal lavoro ai mutui per le case, e di fatto, una volta pagato il debito con la giustizia, si vede negata la cittadinanza.

Negli Stati Uniti gli afroamericani sono 6,5% della popolazione, e il 40% dei detenuti. Se 1 bianco su 17 ha probabilità di finire in carcere, per i neri la percentuale è di 1 su 3. Quello che accade tra la polizia e le persone di colore è il risultato di un processo durato secoli. La violenza della polizia non è un sistema circoscritto, è il riflesso di un sistema più ampio e crudele di controllo razziale e sociale chiamato incarcerazione di massa, e che autorizza questa violenza. Ava DuVernay ha anche girato la miniserie “When They See Us” (2019, su Netflix), sul caso della jogger di Central Park, che nel 1989 fu aggredita: cinque giovani, di cui quattro neri e uno ispanico, furono condannati e poi scagionati in seguito alla confessione del vero colpevole.

 

cinema americanoIl coraggio della verità

In “XIII Emendamento” vengono citati decine di casi di violenza della polizia, che lasciano senza parole. Uno di questi, quello di Philando Castile, afroamericano di 32 anni ucciso da un poliziotto dopo che era stato fermato perché uno stop della macchina non funzionava, è stato lo spunto per “Il coraggio della verità” (2018, in streaming su Sky On Demand e NOW Tv) di George Tillman Jr., adattamento cinematografico del romanzo “The Hate U Give – Il coraggio della verità”, del 2017, scritto da Angie Thomas. La storia di Castile si unisce a uno status del rapper Tupac Shakur, THUG LIFE, cioè “The Hate U Give Little Infants Fucks Everybody” (È l’odio che diamo ai bambini a fotterci). È una frase perfetta per raccontare la spirale di odio che permea la vita degli afroamericani negli Stati Uniti: un odio che i bambini respirano fin da piccoli, e che finiscono per restituire una volta adulti. Khalil, il ragazzo al centro della storia, dice queste parole a Starr, sua amica fin dall’infanzia mentre, di ritorno da una festa, stanno ascoltando Tupac in macchina. Poco dopo i due vengono fermati dalla polizia. E, per un equivoco, Khalil viene freddato. Avevamo visto Starr e i suoi fratelli, qualche anno prima, ascoltare dal padre Maverick, che era stato in una gang e aveva deciso di uscirne, un decalogo dei Black Panthers che spiegava cosa fare in caso di fermi, o abusi, da parte della polizia. Perché, come dicevamo, se un poliziotto ferma un nero e teme che sia armato, gli spara. Se succede la stessa cosa con un bianco, gli grida “mani in alto”.

Se la strada potesse parlare

Se la strada potesse parlare” (“If Beale Street Could Talk2, del 2018, in streaming su Sky On Demand e NOW Tv), di Barry Jenkins, premio Oscar per “Moonlight”, è ambientato negli anni Sessanta, ad Harlem, Manhattan, ma potremmo essere anche ai giorni nostri, quelli di Khalil e Starr. È una storia d’amore tra due giovani afroamericani, Tish e Fonny: lui è in carcere, in attesa di giudizio, per un crimine che non ha commesso, cosa che accade molto spesso. La loro storia è raccontata con un tono pacato, mite, per l’argomento che racconta. È come se i personaggi che si muovono nel film abbiano capito che le battaglie contro le ingiustizie e quell’uomo bianco che spesso le perpetra ai danni della comunità afroamericana si facciano amandosi e sostenendosi a vicenda, più che battendosi con rabbia contro un sistema contro il quale sei destinato a perdere. «I rapporti che costituiscono il fulcro del film sono caratterizzati da quell’incantevole poesia degli scambi interrelazionali che, per la gente di colore, funge da paraurti rendendo l’esistenza meritevole di essere sopportata, rendendo la promessa infranta del sogno americano degna degli sforzi necessari al suo perseguimento», aveva scritto Jenkins.

cinema americanoDetroit

Guarda al passato per raccontare il presente anche “Detroit” (2017, in streaming su Netflix), di Kathryn Bigelow, che ci porta in mezzo alle rivolte razziali nella motortown del Michigan nel 1967: una sera uno sparo di una pistola giocattolo attira la polizia nel Motel Algier; cercano un colpevole, e non se ne vanno fino a che non l’hanno trovato. Il risultato sono tre ragazzi di colore uccisi a bruciapelo. Siamo in quegli anni Sessanta, a Detroit, dove nasceva il soul della Motown, e gli afroamericani, con le loro voci celestiali, stavano diventando le nuove star. Ma per la maggioranza degli americani erano ancora i “negri” e, come vi abbiamo raccontato, potenziali criminali. Detroit vuole dirci che nulla è cambiato, che ci ricorda che, nell’America di Trump, ogni persona di etnia diversa è un potenziale nemico e trattato così a prescindere, con una presunzione di colpevolezza che è lontana da ogni diritto civile.

Dal Michian alla Louisiana

Il paladino dei diritti civili, quando si parla di cinema americano, è Michael Moore, il Robin Hood in cappello da baseball che è stato uno dei più fieri oppositori di George W. Bush. Nel suo “Fahrenheit 11/9” (2018, a noleggio su TimVision, Rakuten Tv, Google Play e iTunes) un pamphlet sull’ascesa di Donald Trump, ci ha parlato di un caso preciso, quello di Flint, nel Michigan, dove una faglia di acqua inquinata ha avvelenato con il piombo più di 10mila bambini. La zona colpita era una delle più povere della città, quella abitata dagli afroamericani, dai più poveri, quelli che hanno sempre la peggio quando le cose si mettono male, che non vengono mai considerati.

 

Che fare quando il mondo è in fiammeUn altro documentario, “Che fare quando il mondo è in fiamme?” (“What You Gonna Do When The World’s On Fire”, 2018, a noleggio su Miocinema) di Roberto Minervini (di cui vi abbiamo parlato qui), autore italiano che da anni racconta le zone più povere dell’America, ci porta in un’altra zona calda. È stato girato tra Baton Rouge e Jackson, Louisiana, nel 2017, quando da poco erano stati uccisi Alton Sterling e Philando Castile a opera della polizia. Attraverso una serie di racconti di varie persone, donne, uomini, bambini, ne esce un affresco in cui ognuno vive la prigione come qualcosa di ineluttabile, di inevitabile, un destino segnato. Il carcere, la criminalità, la violenza sono i fili conduttori del film, ricorrono in tutti i discorsi, continuamente. Le persone ne parlano con dolore ma con naturalezza: entrare e uscire di prigione è la norma. È un altro documento di quel processo di criminalizzazione di cui stiamo parlando.

Il diritto di opporsi

Dalla Louisiana ci spostiamo verso Monroeville, Alabama, il luogo in cui Harper Lee ha scritto “To Kill A Mockingbird”, cioè Il buio oltre la siepe. Ne “Il diritto di opporsi” (2019, a noleggio su Infinity, Chili, TimVision, Rakuten Tv, Google Play e iTunes) di Destin Cretton, ci si fa riferimento più volte, si parla anche del Museo di Harper Lee come di una “pietra miliare dei diritti civili”. Eppure la gente del posto non sembra aver imparato molto dalla storia di Atticus Finch, indigente uomo nero che non aveva ottenuto giustizia. Parla di quella storia con orgoglio, ma rimane indifferente di fronte a quella di Walter McMillian, che nel 1987 viene condannato a morte per aver ucciso una ragazza di 18 anni, nonostante delle prove chiaramente inesistenti e una serie di evidenze che confermavano il contrario. A difendere Walter, tra la sorpresa di tutti e dello stesso condannato, è Bryan Stevenson, un giovane neolaureato in legge ad Harvard. Perché lo fa? Perché, quando era ancora uno studente di legge in stage, nel braccio della morte della prigione di stato della Georgia incontra Henry Davis, un condannato a morte. Henry era come lui, stessa età, stesse origini e stesse passioni, la musica e il canto. E così capisce che al posto suo avrebbe potuto esserci lui stesso, rimane scosso, e decide che dedicherà la sua vita e il suo lavoro a persone come Henry. È un film orgogliosamente anti-Trump: il momento in cui, nella sua arringa, Bryan si appella alla giuria e si chiede se stia decidendo in base alla paura e alla rabbia invece che alla legge, è una stilettata decisa all’attuale amministrazione americana.

La fine dell’era Obama

L’Era Obama è finita e sembra lontanissima, e pare che le cose, dopo la fine della sua presidenza, siano peggiorate, e che la sua elezione abbia provocato una recrudescenza del razzismo. In occasione dell’uscita del film “Che fare quando il mondo è in fiamme”, avevamo riportato le parole di Isabel Wilkerson, premio Pulitzer, ex inviata sul territorio nazionale e reporter del New York Times. «Dopo questi casi, i genitori neri si trovano di nuovo nella condizione di dover salvaguardare se stessi e i propri figli dalla violenza che subiscono in proporzioni inaudite per mano delle autorità, che avrebbero il compito di proteggerli. Si ritrovano a recitare di nuovo lo stesso discorso che i loro antenati facevano ai figli nel vecchio Sud: bisogna rispondere Sissignore e No, signore, e stare attenti a come ci si comporta con la casta superiore e con la polizia.

 

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