ROMA, NICOLA LAGIOIA: MULTI DIVENTI UN LABORATORIO CULTURALE PER LA CITTÀ

Il 29 e 30 settembre e il 1° ottobre l’Esquilino ospiterà Multi, festival alla prima edizione organizzato da Slow Food Roma e Lucy. Sulla cultura. Lagioia: «Speriamo che intorno a Multi si formi una comunità e che diventi un laboratorio culturale attivo tutto l’anno. Roma ne ha bisogno»

di Chiara Castri

Il 29 e 30 settembre e il 1° ottobre i Giardini di Piazza Vittorio, nel quartiere Esquilino a Roma, ospiteranno Multi. Viaggio alla scoperta delle culture e delle cotture che ci uniscono, festival alla sua prima edizione organizzato da Slow Food Roma e Lucy. Sulla cultura, con il supporto – tra gli altri – di CSV Lazio ETS.
MultiQuello del prossimo fine settimana è il numero zero – come lo definisce uno dei suoi ideatori , Nicola Lagioia – di un festival nato attorno alla multiculturalità, alla convivenza, alla condivisione. E alla cultura del cibo e della musica, patrimoni condivisi e naturali veicoli di incontro e scambio. Assai ricco il programma, tra incontri, seminari, lezioni, occasioni di carattere più strettamente culturale, accanto alle degustazioni e ai momenti di buona musica. A rendere vivo Multi le tante comunità che nel tempo hanno trovato in Roma – e nel quartiere Esquilino in particolare – un luogo di approdo che ha saputo aprirsi alla convivenza e al reciproco arricchimento. D’altro canto la scelta dei luoghi che accoglieranno questo festival che ritrova le sue intenzioni anche nel nome non è certo casuale. L’Esquilino è luogo che è divenuto profondamente Multi, che si è trasformato fino a divenire uno dei più vivaci rioni multietnici di Roma, senza perdere la parte profonda del suo animo, che si è anzi estesa a chi di volta in volta vi si è trovato a convivere. Multi parlerà allora lingue diverse e porterà storie ed esperienze diverse: dei cittadini che c’erano e di quelli che lo sono diventati, del territorio, delle associazioni, dei vari rappresentanti del mondo della cultura che sentono l’Esquilino e Piazza Vittorio casa.
E poi c’è Fuori Multi, programma parallelo che coinvolgerà i cittadini nelle iniziative organizzate da associazioni e organizzazioni che operano nel Rione Esquilino. Tra passeggiate, tour, visite a musei, rassegne ed itinerari interculturali, anche Esquilibri, la mostra mercato del libro usato e d’antiquariato organizzata dall’associazione Pagine Romane, in collaborazione con le associazioni Esquilino Vivo e Piazza Vittorio Aps sotto i portici di piazza Vittorio. Il programma completo è disponibile su Multiroma.it.
«Abbiamo un sogno che guarda lontano: vorremmo che Multi divenisse un riferimento culturale per la città. Meglio ancora, un laboratorio culturale attivo tutto l’anno». Così Nicola Lagioia, scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico, Premio Strega per “La ferocia” (Einaudi), già direttore del Salone internazionale del libro di Torino e direttore editoriale di Lucy. Sulla cultura. A Lagioia abbiamo chiesto di raccontare Multi, cosa voglia dire proporre un contenitore di questo tipo oggi e come dargli le gambe nel futuro.

Come nasce l’idea di Multi? Cosa vuol dire proporre un contenitore di questo tipo nel contesto attuale? Quali aspettative avete?

Multi
Nicola Lagioia scrittore, sceneggiatore, conduttore radiofonico, Premio Strega per “La ferocia” (Einaudi), già direttore del Salone internazionale del libro di Torino e direttore editoriale di Lucy. Sulla cultura, uno degli ideatori di Multi. Immagine Di ActuaLitté – Nicola Lagioia – Frankfurt Book Fair 2016, CC BY-SA 2.0

«Partirei da un’aspettativa che è già realizzata: il fatto che sia stato possibile realizzare un progetto del genere, anche tenendo conto dei tempi record con cui ci abbiamo lavorato. Vorrei quindi dire che finalmente un progetto del genere è nato. Roma è una grande metropoli, una delle più grandi città dell’Europa occidentale in termini di estensione. Ed è un posto dove le comunità provenienti da tutto il mondo si trovano a vivere da anni. Una manifestazione culturale che provi a metterle insieme nel nome della cultura, del cibo, della convivialità, della musica, della letteratura, dell’arte, credo che sia qualcosa che a Roma è mancata. La prima è quindi un’aspettativa realizzata. Siamo felici per come le varie comunità, gli artisti, gli scrittori hanno risposto. Più che aspettative abbiamo desideri, tanto più che la parola “aspettativa” porta sempre in sé un elemento performativo che sento distante da me. Desideri ne abbiamo di due tipi, uno a breve distanza e uno di lungo periodo. Naturalmente il primo è che Multi riesca al meglio, che tutti coloro che verranno a trovarci e che vorranno fare parte di questa comunità si trovino bene, passino un tempo bello, trovino un modo Multi di passare un fine settimana all’insegna dell’incontro, dello stare insieme. Poi, però, c’è il desiderio a lungo termine. Speriamo che intorno a Multi si formi, da una parte, una comunità – perché una cosa è avere un pubblico, che si dissolve, è occasionale, altra cosa è avere una comunità, un gruppo di persone che sentono di avere a che fare con gli altri, che hanno qualcosa in comune -. Ecco, Multi vuole far sì che tutte le comunità che convergeranno a Piazza Vittorio creino e rafforzino legami. Così come desideriamo che Multi diventi un laboratorio: il Festival è alla prima edizione – quasi un numero zero -, ma non vuol dire che non possa, nel tempo, trasformarsi in un laboratorio culturale per la città, operativo tutto l’anno. Sarebbe una cosa bellissima. Roma ne ha bisogno, tutte le grandi città hanno bisogno di questo tipo di laboratori culturali attivi tutto l’anno, questa è la vera ricchezza delle grandi città».

 L’Esquilino e Piazza Vittorio sono luoghi emblema di coesistenza e intercultura, così come è emblematica la scelta di portare qui Multi. Tuttavia questi non sono gli unici luoghi, a Roma, in cui culture diverse si trovano a convivere. Ci sono oggi le condizioni perché si esca dall’emblema per parlare di integrazione anche in periferia ad esempio?

«Sicuramente la scelta non è casuale, l’Esquilino un posto in cui tante diverse culture e tanti diversi popoli convivono nella normalità del quotidiano. Io stesso vivo nel quartiere da tanti anni e mi sono sempre trovato benissimo. Questo è un elemento. D’altro canto eccezione culturale dell’Esquilino rispetto a Roma e al resto d’Italia è che, considerando il territorio tra la fine del Rione Monti e Pigneto, Torpignattara, Centocelle, abbiamo un’area urbana unica in Italia, in cui, se prendessimo tutti gli scrittori, i registi, i musicisti, gli artisti che lì vivono, avremmo un festival internazionale a chilometro zero. Pensiamo solo al cinema: nello stesso palazzo, fino a qualche tempo fa, vivevano sia Matteo Garrone che Paolo Sorrentino; all’Esquilino vive Willem Dafoe e Abel Ferrara. La cosa bella, però, – vera anche per tutta Roma – è che, anche se sei una star, lì torni ad essere una persona normale. Una normalizzazione del divismo che è parte del motivo per cui all’Esquilino tante diversità convivano in modo pacifico. Se ci siano le condizioni, però, per parlare di integrazione anche in periferia è una domanda che non va fatta a me, ma agli amministratori della città, ai politici. Sicuramente le periferie possono essere importanti ed enormi laboratori di integrazione. Pensiamo a Grande come una città, nel Municipio Roma 3: non so se vogliamo considerarla periferia, ma quella è, in questo senso, un’iniziativa ottima.  All’Esquilino siamo già oltre: non si parla di integrazione, ma di convivenza. Sulle periferie romane forse non sono un esperto, racconto di quello che so. Lascerei sul resto rispondere gli amministratori della città».

Oggi parliamo di incontro, integrazione, convivenza. Tuttavia la narrazione sulle migrazioni a cui siamo sottoposti è ancora emergenziale. E spesso, come ha dimostrato lo stesso Garrone in “Io Capitano”, parte dalla fine, dagli sbarchi, dal problema. È possibile affermare una narrazione alternativa?

Multi
«Annalisa Camilli è tra le giornaliste italiane che – così come Nello Scavo – più hanno esperienza di immigrazione. A Multi porterà una lezione sulla narrazione distorta che abbiamo delle migrazioni»

«Uno degli incontri più attesi di Multi è “Perché i naufraghi del Mediterraneo non fanno più notizia?”, la lezione di Annalisa Camilli, tra le giornaliste italiane che – così come Nello Scavo – più hanno esperienza di immigrazione. Una lezione sulla narrazione distorta che abbiamo delle migrazioni. Certamente l’elemento narrativo – che non è elemento affabulatorio, ma racconto di ciò che davvero sono, del significato che hanno, del ruolo che svolgono le migrazioni – uscendo dallo scontro politico che è ricatto politico, si esprime sempre per slogan, non racconta, distorce qualunque elemento. Al contrario di persone come Annalisa Camilli, Nello Scavo o Matteo Garrone (tra l’altro abbiamo saputo che il suo film rappresenterà l’Italia agli Oscar) che possono cambiarla la narrazione. Nel solco di quanto ha fatto fino alla sua morte precoce Alessandro Leogrande, scrittore e giornalista italiano che è stato un grande e onesto raccontatore del fenomeno migratorio».

L’Italia è un paese che non legge. Che chance hanno le storie di migranti e migrazioni di essere lette? Chi sono i lettori? Si riesce, per quella che è la sua esperienza, ad uscire dalle cerchie di un pubblico già sensibilizzato?

«È molto difficile. Le storie di migranti hanno poco spazio nel racconto, nonostante le migrazioni siano un fenomeno mondiale che c’è sempre stato e che non si interrompe per decreto, con il quale dovremo confrontarci nei prossimi anni. Ciononostante le narrazioni sulle migrazioni interessano poco agli italiani, o meglio interessano molto nella loro forma distorta, nell’agone politico, per il loro utilizzo a fini elettorali. Tuttavia la narrazione sull’immigrazione è qualcosa rispetto alla quale giriamo la testa dall’altra parte. Ci sarebbe da chiedersi perché. Forse per senso di colpa? Potrebbe essere. Forse per orrore perché il Mediterraneo, che quando ero ragazzino era considerato la culla della civiltà, ora rischia di diventarne la tomba, un luogo in cui le persone muoiono in continuazione? Un massacro quotidiano per noi intollerabile: dobbiamo ricorrere alla psicoanalisi per spiegare perché giriamo la testa dall’altra parte? Ricordo quando Gianfranco Rosi vinse il Festival di Berlino con il suo “Fuocoammare”: casi in cui un racconto delle migrazioni – come anche ora Garrone – ha addirittura vinto premi internazionali ci sono stati. Ciononostante noi lettori abbiamo problemi a confrontarci. Potrebbe essere mancanza di sensibilità, ma non voglio essere così duro. Potrebbe essere orrore, ma qualunque sia la causa girarsi dall’altra parte non risolve niente, è anzi sempre colpevole».

Il cibo, come ad esempio la musica, è da sempre linguaggio di intercultura. Multi è allora un’occasione. Quanto il food è, in questo caso, veicolo di intercultura e quanto è funzionale ad avvicinare pubblici diversi?

Multi
«Cibo e musica, in modo diverso, non hanno bisogno delle parole»

«Il cibo è davvero – e non solo – interculturale, ma anche interreligioso. Io sono pugliese e la Puglia è la regione più a est d’Europa: non so se la vera porta d’oriente sia Venezia invece Otranto. Quando vado in Medio Oriente mi trovo a mangiare l’olio d’oliva, che è lo stesso che si fa in Puglia; la cicoria, la stessa che mangio in Puglia. Fave e cicoria è un pasto pugliese che però si trova anche in Grecia. Stessa cosa in Medio Oriente, Palestina, Israele, Turchia: il cibo ha variazioni, ma anche tante affinità con il nostro. D’altro canto la cultura mediterranea è simile nel cibo, ma molto differente nelle lingue, nei colori, nelle religioni, nelle tradizioni letterarie. Cibo e musica, in modo diverso, non hanno bisogno delle parole. Il cibo, poi, è anche un’esperienza sensoriale e porta con sé convivialità, chiacchiere, confronti, litigi e riappacificazioni, risate. Come il cibo, la musica – a differenza del cinema, della letteratura, della poesia – facendo a meno delle parole e fa sì che due persone di culture diverse si trovino a condividere un sentimento davanti alla stessa esecuzione. E questo è vero da un punto di vista antropologico: la musica si è diffusa prima ancora della nascita della scrittura, funzionando, per il nascente homo sapiens, come collante sociale. Poi -intendiamoci – la musica è stata usata anche a scopo distruttivo, come nel caso delle marce militari, ma noi privilegiamo e amiamo la musica come espressione artistica che unisca anziché dividere, rituale che ci fa sentire non solo come appartenenti alla stessa specie, ma come condividenti la vita anche con le altre specie animali e vegetali. A volte è qui che porta l’estasi musicale. Lo diceva anche Schopenhauer: “la funzione più alta dell’arte è farci sentire parte di un tutto”».

Immagine di copertina Chabe01 – Own work, CC BY-SA 4.0

 

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