FUORI POSTO. IL FESTIVAL CHE AVVICINA, QUEST’ANNO PIÙ CHE MAI

L’edizione 2020 di Fuori posto Festival di teatri al limite parla di disabilità ed è online. Una scommessa vinta

L’edizione di Fuori posto. Festival di teatri al limite di quest’anno sarebbe dovuta durare una settimana, con un allestimento museale multimediale e interattivo presso la Sala Alessandrina dell’Ospedale Santo Spirito di Roma. «Ci siamo ritrovati all’improvviso a dover annullare tutto. Il percorso sarebbe dovuto essere immersivo, interattivo e con performance dal vivo», dice Emilia Martinelli, ideatrice e direttrice artistica del festival Fuori Posto e dell’associazione culturale Fuori ConTesto. «La prima idea che abbiamo avuto è stata: facciamolo virtuale, proviamo, sarà una scommessa da vincere. E l’abbiamo vinta grazie ad un grande lavoro di squadra».

Fuori postoUn museo inclusivo e accessibile a tutti

«Avevamo un enorme materiale in mano, tanto lavoro già fatto e declinato. Abbiamo deciso di continuare a fare quello che facciamo da anni, in un posto che non è canonico, ma l’on line arriva più vicino alle persone. E stare più vicino alle persone è ciò che più ci piace fare: una volta il mercato era il luogo della vicinanza, oggi è Internet. Abbiamo fatto di necessità virtù e siamo diventati virtuali perché, mai come in questo momento storico, è urgente raccontare le nostre storie “fuori posto”, per muovere gli spettatori e generare un cambiamento, un cambio di prospettiva sulla diversità. Così è nato il nostro museo virtuale inclusivo e accessibile a tutti».
Per la realizzazione delle storie del Festival, sono state effettuate circa 25 interviste. Alcuni estratti sono presenti nelle storie del sito, di alcune interviste ci sono estratti di alcune parole, di altre ancora è stata ripresa un’atmosfera, un’ispirazione, poi la storia è diventata un’altra. L’opera “Telescopio” racchiude tutte le storie, anche con le voci di due intervistati: ripercorre il percorso di consapevolezza di tutte le disabilità. «Io nell’acqua, io che nuoto, la mente è completamente vuota, sono concentrata a vivermi quel momento, è la mia dimensione», racconta uno degli intervistati, «mi riapproprio dell’energia fisica: nell’acqua, nel mare, sparisce tutto». «La mia sclerosi è un vaso, un vaso che mi è caduto in testa». «È stata una bella botta, non me l’aspettavo», dice la voce nell’opera “Girasole”. «Ha fatto male perché fa male. Però questo vaso, con il tempo, ho iniziato a spostarlo, l’ho portato vicino a me, per gestirne il peso. Ci cammino insieme. E ci ho piantato pure un girasole». Nell’opera si passa dal peso della difficoltà, alla “rottura” di tutto fino all’accettazione, che è rappresentato dal mondo dell’acqua, che permette la leggerezza, la libertà. In “Teatrino” Dario Pasquarella, un attore sordo, nel monologo in linguaggio LIS senza traduzione “Dario chi?” parla della sua accettazione, c’è un “rumore di silenzio” e alla fine c’è il pezzo scritto. L’idea è di mettere lo spettatore nei panni di un sordo, deve provare a capire qualcosa anche se non sente niente.

Come nasce Fuori posto

L’idea del Festival è nata otto anni fa, la prima edizione si è svolta nel mercato rionale di Val Melaina con delle danze tra i banchi del mercato. «La nostra idea è stata sin dall’inizio quella di andare in prossimità delle persone, il più vicino possibile alla gente», spiega Emilia Martinelli. «Otto anni fa non era così comune come oggi l’idea di fare questo tipo di spettacolo di prossimità, di far entrare il pubblico nella performance, coinvolgendo ma senza essere invadenti. Negli anni, abbiamo organizzato spettacoli nelle piazze, in scuole di danza, nelle vetrine dei negozi, nelle biblioteche, nelle scuole. E anche nei teatri. E quest’anno un altro banco di prova, a causa del Covid-19, con l’on line».

La follia di un Festival reinventato

«Fare quest’edizione è stato folle dal punto di vista tecnico, avevamo i contenuti e abbiamo lavorato tanto per renderli più fruibili. Abbiamo deciso, in quest’edizione più che mai, di essere totalmente inclusivi e accessibili, a tutti: ciechi, sordi, ipovedenti. È stato un lavoro pazzesco, anche dal punto di vista delle risorse economiche. Però questo ci dà la possibilità di arrivare veramente a tutti e di arrivarci meglio. Inclusivo è anche il tipo di progettazione informatica, veramente innovativa, con un’alta accessibilità, si tratta di una realtà virtuale 3d con contenuti completamente diversi l’uno dall’altro: video, video 3d, up interattive (come installazioni del telefono) e altro».
Nel gruppo di lavoro sono presenti tante professionalità differenti, dai teatranti al designer, dai ballerini ai videomaker. «Abbiamo pensato: siamo chiusi in casa, facciamo in modo che le opere passino da casa, che è il nostro ambiente ora. Abbiamo scelto uno spazio bianco sospeso, come sospesi siamo stati noi in questi mesi a causa del lockdown. Abbiamo rivisto tutte le opere pensando agli oggetti che sono tra le mura domestiche, come il mappamondo, la paperella, il cannocchiale. Questi oggetti ricreano la casa, il designer ha ridisegnato tutto in 3d. Il videomaker, tra riprese e regia, ha fatto un grande lavoro con uno sguardo molto delicato. L’informatico, il programmatore che lavora con noi su altri tipi di progetti si è messo totalmente in gioco. Una socia molto giovane, esperta LIS, che presenta il Festival Fuori Posto quando si entra nel sito, è diventato il volto di questa edizione. Con lei e la supervisione di una società specializzata abbiamo realizzato tutta la parte accessibile». Poi ci sono i danzatori e gli attori che hanno prestato la voce. Alcuni video sono precedenti il lockdown, altri sono stati girati appena è stato possibile a maggio inoltrato. «È stato un lavoro di èquipe, questa è la nostra forza. Dall’idea di realizzare il Festival virtuale alla realizzazione finale sono passati due mesi. La società che ci ha aiutato nell’accessibilità del sito ci ha detto che abbiamo fatto un lavoro di un anno concentrato in due mesi».

Fuori postoLa mission di Fuori Posto

«Il Festival vuole essere inclusivo, ma questa parola non ci piace, in realtà, perché è un termine che esclude, separa. La nostra idea è non creare separazione, vorremmo arrivare al punto di essere talmente inclusivi da non avere più necessità di usare questa parola. So che è un po’ utopistico, ma l’utopia serve a guidare un cammino e speriamo che ciò accada».
La scelta, in quest’edizione, di intervistare il mondo della disabilità è importante. Ad esempio, un video nell’opera “Casa di bambola” rappresenta un po’ tutti: per integrare una lacuna, una mancanza abbiamo i super poteri da un’altra parte di noi stessi. «La cosa che ci sarà nel mio futuro, spero, è che avrò una casa mia, un marito, dei cani, dei figli, sarò indipendente», dice l’intervistata. L’indipendenza, che sembra scontata, non lo è affatto quando si è disabili.
«L’obiettivo del Festival è far entrare nel tema della disabilità chi è lontano da questo mondo, tutti abbiamo delle “disabilità”, delle mancanze, delle diversità. È un tema che ci riguarda tutti, mai come in questo momento, che siamo appena usciti da una condizione che ci ha messo tutti in una condizione di mancanza».

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