
GAZA, ALHASSAN SELMI: «IL MESSAGGIO DI PACE NON PUÒ ESSERE UCCISO»
Nell’edizione 41 del Premio giornalistico Colombe d’Oro per la Pace istituito da Archivio Disarmo premiati tre giornalisti palestinesi: Aya Ashour, Fatena Mohanna e Alhassan Selmi. Abbiamo ascoltato dalla loro voce che cosa è stato, ed è ancora, il genocidio in Palestina
21 Ottobre 2025
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«Il messaggio di pace non può essere ucciso». Le parole del giornalista palestinese Alhassan Selmi racchiudono tutto il senso di questa 41ma edizione del Premio giornalistico Colombe d’Oro per la Pace, istituito da Archivio Disarmo nel 1986 per incoraggiare il mondo dell’informazione a farsi portavoce sui temi della pace e del controllo degli armamenti. Ad essere premiati, quest’anno, sono stati tre giornalisti palestinesi: Aya Ashour, che è in Italia dallo scorso giugno, Fatena Mohanna e Alhassan Selmi, che non sono riusciti a lasciare la Palestina e hanno partecipato alla premiazione nella Sala della Protomoteca del Campidoglio, in collegamento da Gaza. Aya Ashour, Laureata in Diritto internazionale, ha iniziato a collaborare con Il Fatto Quotidiano, concentrandosi soprattutto sulle storie delle donne palestinesi, vittime dimenticate della guerra. Aya oggi studia all’Università per Stranieri di Siena, ma ha il cuore e gli occhi ancora fissi su Gaza. Fatena Mohanna è una giovane fotoreporter che vive e lavora nella Striscia di Gaza: attraverso i suoi scatti intensi e le sue riprese, forti e allo stesso tempo umane, ha saputo raccontare la vita quotidiana di una popolazione che vive sotto assedio. Alhassan Selmi è un giornalista, fotoreporter e videomaker palestinese, originario di Gaza. Da due anni sotto assedio come tutti i gazawi, documenta i bombardamenti, la crisi umanitaria, la carestia e la morte in agguato in ogni angolo della Striscia. Sono suoi e di Fatena Mohanna i reportage di Presa Diretta che ci hanno fatto conoscere la situazione. Ascoltare le loro parole, in occasione del Premio Colombe d’Oro, che per molti di noi ha avuto il valore di un premio Nobel per la Pace, è stata un’esperienza molto intensa, che porteremo con noi a lungo.

Aya Ashour: i sogni di cose semplici, come il cibo cinese
«Mi chiamo Aya Ashour e ho 24 anni. Sono una sopravvissuta al genocidio di Gaza. Dopo 627 giorni oggi sono una ricercatrice all’Università per Stranieri di Siena». Ha iniziato così la sua storia la giovane giornalista palestinese. «Ho vissuto tutta la mia vita a Gaza, ho visto il mondo attraverso lo schermo del mio cellulare. Ho sempre sognato di vivere in Italia». «Sono diventata giornalista per caso o forse per necessità» ha continuato. «Sentivo il bisogno di raccontare le storie della mia gente, i sogni di tutti noi, giovani, donne e bambini palestinesi, che tanto amiamo la vita, dentro i limiti di una terra che non abbiamo mai avuto il permesso di lasciare». «Amiamo la vita, odiamo la guerra e il genocidio» ha spiegato. «E vogliamo vivere quelle piccole cose ordinarie, di tutti i giorni, di cui siamo stati sempre privati. Io sognavo di salire su un aereo, di assaggiare la cucina cinese, di ammirare fiori e opere d’arte. Di godermi la vita, di entrare in una biblioteca che avesse dei libri in tutte le lingue del mondo. Di fare vacanze, come tutti. Non ho mai potuto fare niente di tutto questo. L’ho fatto solo dopo i 24 anni, qui in Italia. Immaginate di non poter mai aver potuto assaggiare un piatto di spaghettini cinesi, se non dopo i 24 anni».
Poter guardare il cielo e gli aerei senza paura di venire bombardati
«Invece di vivere queste piccole esperienze, la mia e la nostra vita è stata trasformata in un mondo di cifre» ha continuato nel suo racconto. «Quelle degli ospedali, delle scuole, delle università distrutte da Israele. Mentre i corpi nei nostri cari si trasformavano in cibo per i cani. Noi della nostra generazione ci sentiamo responsabili di levare la nostra voce, di raccontare questi crimini al mondo intero. Invece di progettare il nostro futuro, di avverare i nostri sogni, abbiamo visto la nostra vita trasformata in qualcosa di assurdo, imbevuta dal sangue dei nostri cari». Oggi Aya è davanti a noi come sopravvissuta, come una che ha deciso di scrivere perché il mondo sapesse cosa sta accadendo. «Io e noi continueremo a parlare e scrivere delle vicende del popolo palestinese» ha dichiarato nel suo discorso. «Io completerò il mio viaggio di formazione. Una pace senza giustizia non porta mai all’eguaglianza. Soltanto ieri in un raid aereo di Israele sono stati uccisi altri dieci palestinesi, sebbene ci sia un accordo di pace sulla carta. Di questa pace sono responsabili Israele, la Palestina, gli Stati Uniti e il resto del mondo. Il resto del mondo dovrebbe chiamare Israele a rispondere di quello che ha fatto e che fa, se deve essere un accordo di pace. Noi palestinesi sappiamo cos’è il diritto internazionale, e sappiamo che nessuno stato può porsi al di sopra di esso». Aya ha ringraziato l’Italia per averle permesso di portare la loro voce in tutto il mondo. «E di condurre una vita normale» aggiunge «È la prima volta che guardo il cielo e vedo un aereo e non ho paura perché non è un aereo militare e un aereo civile».

Fatena Mohanna: Gaza ha ancora un battito del cuore vivo
«Mi chiamo Fatena Mohanna e vi sto parlando da dentro la Striscia di Gaza. La guerra ci ha tolto la sensazione della pace. Persino adesso che la guerra è finita ci sembra una cosa incredibile dato che per tanto tempo abbiamo vissuto circondati dalla paura e dalla disperazione». Così Fatena Mohanna ha iniziato il suo discorso in collegamento da Gaza. «Ricevere questo premio mi fa sentire qualcosa che avevo quasi dimenticato, che sono viva, che sono qui e che sto abbastanza bene. Anche se vi parlo di una città che il mondo conosce solo come una città di morte. Gaza invece ha ancora un battito del cuore vivo. Se foste qui vicino a me lo sentireste». La giornalista ha ringraziato Archivio Disarmo e la trasmissione Presa Diretta per questa opportunità. «Grazie perché credete, onorate e date grandissimo valore alle storie che abbiamo cercato di raccontare quando, con mezzi diversi abbiamo cercato di far vedere al mondo la resilienza, l’umanità e i sogni della gente di Gaza» ha dichiarato. «Ringrazio tutto il popolo italiano perché ha sentito il nostro dolore, ci è stato vicino, si è rifiutato di stare in silenzio. Le manifestazioni ci hanno dato forza e ci hanno rammentato che l’umanità è ancora viva. Questo premio non è soltanto mio ma di tutti i colleghi e colleghe che continuano a raccontare le vicende di Gaza. E di tutte le persone di Gaza che sono sopravvissute e continuano a sognare la pace. Vi ringrazio perché voi ci vedete e ci ascoltate. Ci ricordate che la pace è ancora possibile nonostante tutto».
Alhassan Selmi: noi giornalisti, presi di mira
«Con la mia voce vi giunge la voce di due milioni di gazawi. Parlo a voi perché voi con noi siete oggi la voce della pace. Mi chiamo Alhassan Selmi e fino a oggi sono sopravvissuto a 5 guerre e a oltre 100 brevi attacchi. Eppure sono vivo, qui nella Striscia di Gaza». Così Alhassan Selmi ha esordito nel suo intervento, battendosi spesso la mano sul petto, sul cuore, per ringraziare e rispondere agli applausi che arrivavano da Roma. «Essere giornalisti non è per niente facile in situazioni di normalità. Immaginate di farlo dalla Striscia di Gaza. I rappresentanti della stampa non sono affatto protetti, sono presi a bersaglio: più di 250 giornalisti sono stati uccisi perché si sono presi in prima persona la responsabilità di dare la voce a un popolo. C’è un popolo che vuole vivere in pace, fianco e fianco e tutti i popoli del mondo. Ed è per questa testimonianza che sono stati uccisi tutti i giornalisti». «Qui a Gaza non è la prima guerra genocida a cui assistiamo» ha aggiunto. «Siamo passati da una guerra a un’altra guerra, da un genocidio a un altro genocidio dalla morte per fame imposta alla morte per fame. Questa è la nostra pericolosissima situazione da sempre. Per questo sentiamo il dovere di raccontare il martirio della nostra gente. Perché siamo parte di questo. Tutti sanno che noi giornalisti siamo presi di mira: la gente quando ci vede per strada si spaventa perché sa bene che passa un giornalista e un attimo dopo può passare un razzo, una bomba».
La nostra terra è casa vostra
«Da qui a nome di tutte le giornaliste e i giornalisti faccio appello alla comunità internazionale a paesi come il vostro che sono forti per far affluire la stampa internazionale nella Striscia di Gaza perché dia copertura a quello che accade qui» ha detto accorato Selmi dalla Palestina. «Noi qui siamo soli. Ma i media internazionali se venissero qui godrebbero della protezione assicurata dai vostri Paesi forti. A Gaza è tutto distrutto e siamo tante persone, ognuno con la sua storia. Potremmo parlare per anni e raccontare quello che è successo. Tutti pensano che grazie a questo accordo tutto sia normale. In metà della striscia di Gaza c’è l’occupazione militare. Come fare conto di tutta la sofferenza che si vive in questa terra?» Per il giornalista il premio è un grande onore, ma va condiviso con gli altri colleghi. «Vorrei essere con voi» ci ha confessato. «Figuratevi se posso uscire da Gaza io quando nella Striscia di Gaza non si può passare da un centro abitato all’altro, quando i carri armati sono ancora tra di noi». «Dalla Striscia di Gaza vi ringrazio uno ad uno, una ad una» ha continuato Selmi. «Voi siete veramente la voce della pace. Voi popolo italiano siete vicini a noi in questa che è una terra santa ma è ancora imbevuta di sangue perché le bombe non hanno smesso di cadere». Tra i ringraziamenti, quello a Marcella Brancaforte per il lavoro su un libro illustrato. Alhassan, alla fine, si è congedato con un invito. «Per noi è difficile venire da voi, per voi è più facile venire da noi. Vi invito tutti. La nostra terra è casa vostra».
