
GAZA: NO, NON È TUTTO FINITO
Dopo l’accordo di cessate il fuoco, nella Striscia di Gaza sono stati uccisi 200 palestinesi. Mentre si parla di genocidio al passato, gli accordi di pace sono appesi a un filo. Gli aiuti umanitari lasciati entrare sono ancora insufficienti. E continuano le violenze sui villaggi palestinesi in Cisgiordania
24 Novembre 2025
8 MINUTI di lettura
ASCOLTA L'ARTICOLO
«Ma a Gaza intanto “è tutto finito”, no?». È questo che si sente dire oggi da più parti. Quando, almeno, si sente dire qualcosa. Perché su Gaza e sulla Palestina, da qualche settimana, da quando è stato annunciato il fantomatico accordo di pace ad opera di Trump, in realtà non si sente più niente. E invece non è tutto finito. Non si parla più di genocidio, o meglio se ne parla al passato. Come ha scritto Riccardo Noury, Portavoce di Amnesty International Italia, in un articolo su L’Unità: «È vero, si stanno usando i tempi verbali del passato: “è successo”, “è finito”. Prima non si parlava di genocidio perché occorreva negarlo, ora non se ne parla più perché – caso mai lo si ammetta – è una cosa vecchia». Ma perché sulla Palestina è calato il silenzio? «Per chi per due anni ha parlato con estrema fatica dei crimini contro Israele, il cosiddetto accordo di pace patrocinato da Trump è stato il pretesto per poter dire “capitolo chiuso”. Quando invece sappiamo bene che è tutto ancora aperto» ci ha spiegato Noury. «Questo accordo, anche solo nella sua prima fase, si regge su una precarietà enorme. È evidente che i risultati ottenuti in queste prime settimane, cioè la fine dei bombardamenti sistematici, il ritorno in libertà degli ostaggi ancora in vita, la scarcerazione di circa 2mila prigionieri palestinesi, siano stati importanti. Soprattutto per la popolazione della Striscia di Gaza non avere più questo incubo, durato 24 mesi, di bombe che cadono, droni che sorvegliano, ordini di evacuazione improvvisi, è qualcosa. Però, secondo diverse fonti, dopo l’avvio della prima fase del cosiddetto accordo di pace, di persone palestinesi uccise ce ne sono state circa 200». «Ammesso che sia terminato il tempo dei morti, non è terminato il tempo del genocidio» continua. «Le persone ancora in vita hanno a che fare con un futuro che non è facile. in questi giorni abbiamo visto le immagini delle tende coperte d’acqua a causa di una grande quantità di pioggia. Vedendo il contenuto della risoluzione approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, continuano a mancare le parole chiave: diritti e giustizia. Continua a mancare qualunque voce palestinese che possa dire la sua sul proprio futuro deciso da altri. Si conferma che Israele manterrà l’occupazione militare sul 53% del territorio. Si prevede una forza multilaterale di cui non è definito il mandato. Non è prevista una forma di monitoraggio indipendente sull’operato di entrambe le forze, quella israeliana per il 53% e quella multilaterale per il 47%. Il tempo dei vivi, ammesso che si possa stabilire con nettezza e separandolo dal tempo dei morti, è un tempo a sua volta precario. Il genocidio non è un atto istantaneo: è un processo che ha un pre e un post. Ammesso che siamo nel post, questo è tutto da verificare».

Due popoli e due Stati?
Se nessuno parla più di Gaza e della Palestina, ancora meno si parla dell’idea dei due popoli in due Stati «No» ci conferma il portavoce di Amnesty. «Tra l’altro, mentre era all’ordine del giorno il tema del riconoscimento dello Stato di Palestina da quella minoranza di stati che ancora non l’ha fatto, ora anche questo tema, che era per alcune cancellerie la scusa per non parlare di altro, è scomparso. A guardare le cose non dai palazzi della diplomazia, ma sul campo, ci si chiede: cosa materialmente dovrebbe controllare lo Stato palestinese, quando c’è un territorio occupato, quello di Gaza, diviso come sappiamo, e quando c’è la Cisgiordania che è il prossimo bottino di guerra. Cosa dovrebbe controllare, Ramallah e la sua periferia?».
La Cisgiordania, l’altro fronte
E proprio la Cisgiordania è il prossimo fronte da tenere d’occhio. Gli abusi in quella terra durano da anni, ma è arrivata la notizia che le Nazioni Unite calcolano oltre 260 attacchi di coloni ebraici nel solo mese di ottobre, su tutta la West Bank. Queste violenze sui villaggi palestinesi restano impunite e hanno l’avallo dei militari. «A proposito dell’altra formula citata, due popoli due stati, la Cisgiordania sta diventando sì uno stato, ma un secondo stato israeliano» conferma Noury. «Si parla di due Israele, l’Israele laica e uno stato autoritario, religioso, non riconosciuto, che è nelle mani nei coloni, che hanno i loro rappresentanti nel governo e che sono protetti dall’esercito. È una situazione che è in via di peggioramento, dal 2023 in maniera sistematica. E l’obiettivo è evidente: attraverso queste scorrerie impunite dei coloni, fare una pulizia etnica per consegnare alla storia il progetto che ci sia un popolo che vive in quel territorio e si amministra autonomamente».
Una nuova legge sulla pena di morte
Ed è una notizia recente che è in fase di approvazione una legge per la pena di morte obbligatoria per chi uccide un israeliano, una violazione del diritto internazionale. «È una legge che prevede tre passaggi parlamentari e siamo al primo» ci racconta Noury. «I tempi si allungano perché vengono presentati emendamenti che sono ancora peggiorativi. Si parla di arrivare a una sentenza definitiva entro 90 giorni, che vuol dire ridurre ulteriormente i termini di un processo equo. È una legge discriminatoria, perché individua la categoria di persone unica a cui sarebbe destinata, e per la sua retroattività, perché potrebbe valere per atti di terrorismo compiuti precedentemente alla sua entrata in vigore. La definizione di atti di terrorismo è del tutto vaga, generica, incline ad essere utilizzata in maniera eccessiva».

Gli aiuti umanitari
L’accordo di cessate il fuoco prevedeva la riapertura agli aiuti umanitari «Hanno ricominciato ad entrare» ci racconta il Portavoce di Amnesty. «Resta sempre questa spada di Damocle che Israele può chiudere ingressi prendendo a pretesto qualunque cosa, compresi i ritardi nella restituzione dei corpi degli ostaggi. Chiunque conosca bene le operazioni di post conflitto, in cui c’è da scavare per recuperare i corpi, sa ad esempio che non ancora tutti i corpi delle persone uccise in Bosnia 30 anni fa sono stati ritrovati. Pretendere che siano restituiti in una settima è inaccettabile».
La delegittimazione dell’UNRWA
Ma sugli aiuti c’è un altro punto chiave. «Temo che si stia interiorizzando il fatto che la UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di aiuti, sia compromessa» ci spiega Noury. «Questa agenzia è stata ingiustamente delegittimata perché era infiltrata da Hamas. Se qualche dipendente dell’agenzia ha preso parte a degli atti terroristici si tratta di una percentuale poco superiore allo zero percento. Questa agenzia aiuta 5 milioni e 600mila palestinesi. L’agenzia che lo ha fatto per decenni non è più in condizioni di farlo: i Paesi donatori non donano più. E Israele ha fatto una legge che stabilisce che non collaborerà più con questa agenzia. L’Italia si è astenuta nell’ultima risoluzione dell’assemblea generale nel dare il sostegno all’UNRWA. Qualunque soluzione per fornire aiuti che non passi per le agenzie che lo sanno fare, e che preveda altre formule come la Gaza Humanitarian Foundation, sarà negativa». «Prima del 7 ottobre 2023, l’UNRWA per anni è stata la spina dorsale del supporto alla popolazione palestinese, per l’educazione, la fornitura di cibo e alloggi» ci ha spiegato Emanuele Crespi, Responsabile Area Umanitaria di ActionAid. «L’opera di delegittimazione messa in piedi da Israele mirava proprio a scardinare questa organizzazione in modo che non potesse più contribuire con il ruolo che aveva avuto precedentemente».
Aiuti umanitari: entrano solo 200 camion invece che 600. A volte nessuno.
La “pace” ha davvero fatto sì che gli aiuti umanitari potessero entrare nella Striscia di Gaza? «Non parlerei né di tregua né di pace» commenta Crespi. «L’impressione che ho avuto è che questo accordo sia servito esclusivamente per far scendere il silenzio sulla situazione nella Striscia e non solo. Da quanto è stato siglato questo fantomatico accordo i giornali hanno iniziato a occuparsi meno della questione e questo permette a Israele di comportarsi come faceva prima. Gli aiuti arrivano, ma in modalità assolutamente insufficienti. Secondo il famoso accordo Israele avrebbe dovuto permettere l’accesso di 600 camion al giorno. Quello che ci riportano i nostri colleghi in Palestina è che le cifre sono decisamente più basse, quando va bene si parla di 200-250 camion al giorno. Ci sono giornate in cui Israele decide di chiudere i valichi, altre in cui i camion che entrano sono meno di 100. Israele continua a imporre gravi restrizioni all’ingresso di materiali umanitari essenziali, in questo momento in cui la popolazione palestinese è colpita non solo dal conflitto, ma anche dal clima. In un contesto in cui l’80% edifici sono rasi al suolo e le persone non hanno nulla, non sanno dove stare, e il fatto che venga permesso di far entrare beni essenziali per poter permettere loro di continuare a vivere è completamente disumano».
La questione della registrazione e le pressioni sul governo
Riguardo agli aiuti umanitari c’è grande preoccupazione. «Noi di ActionAid, e l’intero sistema delle organizzazioni umanitarie, siamo estremamente preoccupati da quello che vediamo non soltanto per l’impossibilità di avere certezza per fare entrare alla Striscia gli aiuti umanitari, ma per quello che sarà il futuro della Striscia di Gaza e in generale dei territori occupati da Israele» ci spiega Crespi. «Un tema su cui faremo una grossa campagna è quello delle registrazioni delle organizzazioni internazionali da parte di Israele, che ha modificato la legge, inserendo criteri molto più stringenti per ottenere la registrazione e accedere ai territori palestinesi. In questo vediamo l’ennesima manovra politica per impedire alle organizzazioni umanitarie di poter assistere la popolazione palestinese. I colleghi di ActionAid Palestina hanno una serie di contatti e collaborazioni con altre organizzazioni umanitarie per organizzarci dal punto di vista logistico, soprattutto riguardo al valico di Rafah. Qui in Italia cerchiamo di fare insieme alle varie organizzazioni pressioni continue a livello politico sul governo italiano perché assumano una posizione e spingano con Israele per far sì che le organizzazioni umanitarie possano lavorare sui siti palestinesi. Da parte del governo c’è disponibilità all’ascolto ma non la presa di posizione necessaria». La situazione è davvero preoccupante. «Nessuna delle due parti ha un’intenzione seria di arrivare a un qualcosa che sia diverso da una tregua o un cessate il fuoco» conclude Noury. «Entrambe le parti hanno un approccio diverso, cercano il pretesto per trovare la violazione del negoziato. È tutto appeso a un filo. E la cosa amara da constatare è che le persone palestinesi sono tagliate fuori. Sono pezzi di un puzzle che si compone e scompone a seconda delle intenzioni di altri».
Immagini ActionAid






