DALLA BARACCA CHIEDE SE STIAMO BENE. NOI A LUI NON LO CHIEDIAMO

Che fine hanno fatto i ragazzi del Centro Gli Scatenati di Arpjtetto onlus? Sappiamo come si può vivere l'emergenza in un container?

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, questa testimonianza degli operatori del Centro Gli Scatenati e di Arpjtetto onlus.

Nei giorni scorsi, quando abbiamo capito che l’emergenza sarebbe durata ancora a lungo, ci siamo chiesti che cosa avremmo potuto fare per i nostri ragazzi del Centro “Gli Scatenati”, i quali non possono più ritrovarsi quotidianamente presso il Centro.
In un video messaggio mandato ai ragazzi, abbiamo scelto di recitare Leopardi e la sua poesia “L’Infinito”. Questa ci ha aperto il cuore e la mente, facendoci capire che la bellezza ti può raggiungere in qualsiasi angolo di mondo e anche nelle situazioni più disparate. Allo stesso tempo, è rimasta però una sensazione di amarezza e di sconforto.

I ragazzi del Centro Gli Scatenati

Molti delle ragazze e dei ragazzi, che vengono inviati dai Servizi Sociali alla nostra associazione e in particolare presso il Centro Gli Scatenati, provengono dai campi Rom di Roma Capitale, chiamati un tempo da alcuni amministratori della nostra città come “villaggi della solidarietà”.
Di “villaggio” oggi hanno molto poco e sicuramente disconoscono la parola “solidarietà”, non vogliamo fare qui una polemica sulla gestione dei campi, ma sulla loro situazione attuale. Mentre noi, che apparteniamo alla parte di mondo più tutelata, quotidianamente possiamo restare connessi e fare il “lavoro agile”, e i nostri figli e nipoti possono seguire sulle piattaforme della didattica digitale le lezioni scolastiche, i ragazzi e le ragazze che abitano nei campi rom vivono una condizione di profondo isolamento per mancanza di risorse materiali e immateriali. Isolati come tanti altri in questo mondo così digitalizzato ed avanzato ma così poco attento ai bisogni di chi vive in contesti fragili. Riusciamo a raggiungere alcuni di loro tramite WhatsApp, ma di altri non abbiamo nessuna notizia, e tutto questo è molto frustrante.

È per noi necessario sottolineare, inoltre, che i campi Rom sparsi per l’Italia, oggi più che mai, rischiano di diventare una bomba epidemiologica, dove la concentrazione forzata di tante persone – tra cui la maggior parte bambini – fa  aumentare a dismisura le probabilità di contagio (della situazione nei campi Rom, Reti Solidali ne ha parlato qui).

Noi che ci prendiamo cura

Dopo le parole di sabato sera del Presidente Conte, che ha chiuso tutti i settori non indispensabili, abbiamo sentito l’esigenza di scrivere e condividere i nostri pensieri, perché tra le categorie di persone a cui è stato, giustamente, dedicato un pensiero particolare, ne mancano alcune che appartengono a vario titolo all’universo di coloro che si prendono “cura” degli altri.

Non ci sono gli operatori del sociale, professionisti o volontari che siano, non ci sono le educatrici delle case famiglie, come la nostra, che accolgono nuclei mamma-bambino. Strutture residenziali dove le dinamiche quotidiane sono state reinventate sulla base della nuova prossemica imposta per la nostra sicurezza, sullo sforzo di mantenere la distanza minima di un metro, che spesso si accorcia.

Come professionisti del sociale abbiamo molto forte l’idea, che in questo momento solo se siamo uniti possiamo superare questa fase e preparaci al dopo. Siamo abituati a farlo lavorando in equipe, così come siamo abituati a pensare in una prospettiva diacronica, fare il meglio che possiamo oggi, nel qui ed ora, per affrontare la crisi attuale e gettare le basi per costruire un futuro nuovo, che non ci trovi impreparati. Prenderci cura dell’oggi e contemporaneamente del domani.

Uscirne cambiati

Edgar Morin, nel suo ultimo scritto, chiede: a quali figli lasceremo il nostro pianeta? Il senso di questa domanda è profondissimo e quanto mai attuale, il compito nostro è quello di educare dei figli che abbiano forte il senso di empatia, siano attenti al confronto, alla comprensione e alla resilienza, interpretino il prendersi cura come gesto profondamente rivoluzionario, perché siamo tutti umani e da questo pezzo di storia, che sta toccando ognuno di noi dobbiamo uscirne radicalmente cambiati.

Uscirne cambiati significa anche riconoscere, prima che una qualsiasi calamità arrivi, che 800 persone non possono più vivere dentro un recinto fatto di container con nessun accesso diretto all’acqua potabile, che 40.000 persone non possono vivere per strada e poi essere multate perché non hanno una fissa dimora, che la pari dignità sociale esiste e la Repubblica italiana ha il dovere, scritto, enunciato e più volte ricordato, di rimuovere gli ostacoli che ne limitano il suo esercizio.

Ci appelliamo al senso di umanità che noi tocchiamo con mano quotidianamente e chiediamo a tutti di ricordarsi che oggi più che mai è necessario restare umani. Simone Weil dice che «Ogni volta che facciamo veramente attenzione, distruggiamo una parte di male che è in noi stessi».

Emme vive in una baracca con sei persone, tra cui due fratellini di 3 e 8 anni. Oggi ha chiamato chiedendoci se stessimo bene.
Questo chiediamo oggi a voi, quando la quarantena sarà finita, voi vi chiederete come sta Emme?

Gli operatori dell’Arpjtetto onlus

 

 

 

 

 

 

L’Arpjtetto Onlus è un’organizzazione di volontariato che dal 1953 opera a Roma nel quartiere Ostiense per garantire a donne, minori e giovani in condizioni di disagio l’opportunità di diventare protagonisti responsabili del proprio futuro, all’interno della propria comunità.
Il Centro Diurno “Gli Scatenati”, è un progetto dove minori segnalati dall’autorità giudiziaria o destinatari di provvedimenti emessi dal Tribunale dei Minori svolgono attività educative, didattiche, laboratoriali e ludiche come misura alternativa al carcere.
www.arpj.org

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