A RIETI UNA RETE CONTRO LA VIOLENZA DI GENERE CHE FUNZIONA

Il Nido di Ana con Asl e Comune di Rieti ha dedicato una serie di appuntamenti alla violenza sulle donne. Una chiacchierata con Monica Lanfranco, protagonista con il suo “Mio figlio è femminista” di uno degli incontri

«Oggi tendiamo a dire alle nostre figlie che possono essere tutto ciò che vogliono: un’astronauta e una madre, un maschiaccio e una ragazza molto femminile. Ma non facciamo lo stesso con i nostri figli maschi. Alleviamo le nostre ragazze a combattere gli stereotipi e a perseguire i loro sogni, ma non facciamo lo stesso con i nostri ragazzi». Giornalista, femminista, formatrice, scrittrice, Monica Lanfranco, tra le altre cose, si occupa di sessismo e di formazione su comunicazione e linguaggi non sessisti. Da mamma di due figli maschi, è convinta che il mondo possa essere cambiato educando i bambini al rispetto fin da piccoli. Nel suo Mio figlio è femminista (Vanda Edizioni, 2023), cita la giornalista e scrittrice Claire Cain Miller e richiama il suo articolo How to raise a feminist son (Come crescere un figlio femminista) pubblicato dal New York Times qualche anno addietro. Monica Lanfranco è stata la protagonista di una delle iniziative di sensibilizzazione organizzate dall’associazione Il Nido di Ana OdV con Asl e Comune di Rieti sul tema del femminile e della violenza sulle donne.

Lei è madre di due figli maschi. Qual è la sua esperienza?

Il Nido di Ana
Mio figlio è femminista, Vanda Edizioni, 2023

«La mia narrazione interiore era quella di una femminista che ovviamente si riproduce per analogia e mette al mondo una bambina. Ho desiderato una figlia femmina perché avevo nostalgia di me bambina, e il piccolo corpo di Luna che volevo mettere al mondo (così avevo deciso si sarebbe chiamata mia figlia) era il desiderio covato nella pancia durante i mesi della gestazione, il mio modo di sentirmi forte e realizzata, nell’autoproduzione di una me piccina. Ma oggi, dopo trent’anni di apprendistato, madre di due figli maschi ormai giovani uomini, capisco che la vera sfida che mi aspettava allora era quella di mettere al mondo l’altro da me, provando a scongiurare la paura di fallire creando un “nemico” del mio sesso e realizzando, invece, l’offerta al mondo di due maschi empatici e capaci di essere compagni di strada nonviolenti delle donne che avrebbero incontrato e scelto. Perché è un dato di fatto: il mondo gira ancora intorno alla frase augurale che senza vergogna si profferisce all’indirizzo delle future madri e coppie in attesa: “Auguri e figli maschi”. Se non avete mai sentito questa frase siete parte di una minoranza felice».

Cosa significa essere una madre femminista?
«Per chi si definisce femminista, la stella polare dell’agire è racchiusa in quattro parole: il privato è politico. Cosa c’è di più politico che crescere un figlio in modo diametralmente opposto al modello machista, per far sì che, una volta adulto, vada nel mondo senza riprodurre lo stereotipo virilista e misogino, diventando piuttosto un alleato delle donne che incontra nel suo (e nel loro) percorso di emancipazione e libertà, liberandosi a sua volta dal patriarcato?»

Come prendono corpo gli stereotipi? Tutti hanno le stesse opportunità?

Il Nido di Ana
Alberta Tabbo: «Sono grata a tutte le donne che come me e con me hanno e stanno percorrendo questo viaggio»

«Figli e figlie non possono avere le stesse opportunità, in un mondo immaginato, teorizzato, costruito, sorretto da solide fondamenta patriarcali: un mondo nel quale sovente, date le premesse appena citate, sono proprio le madri che si augurano che il frutto del loro ventre sia un figlio maschio. E come dar loro torto? Su un pianeta nel quale a ogni latitudine le femmine sono celebrate solo se conformi al modello ancillare, modesto, virtuoso (salvo la modalità sex bomb, in edizione limitata, per gratificare il desiderio maschile), partorire una figlia è una iattura: una figlia femmina, quando si sposa, non trasmette il cognome della famiglia d’origine ai figli e alle figlie (si trasmette quasi sempre quello paterno); nel matrimonio costituisce una dote da esborsare; la sua fertilità e sessualità fuori da un legame stabile sono incontrollabili, pericolose e fonte di imbarazzo; una femmina è meno forte di un maschio medio, quindi meno abile per i lavori muscolari e così via.
Sempre secondo lo stereotipo patriarcale, le figlie femmine se ne vanno quando si sposano e sono più legate al padre e più conflittuali con la madre. I figli maschi le sono invece più vicini e devoti, anche da sposati, hanno per lei un debole, sono molto più mammoni. Insomma: una figlia è un costo, in molti sensi, non un guadagno, né per il nucleo familiare di provenienza né, in definitiva, per la società. E si potrebbe continuare così: dalle rubriche dei giornali alle trasmissioni tv, dalle soap alle serie, dai film ai romanzi per finire con i social media, è tutto un fiorire di frasi di senso comune che danno per scontato lo stereotipo secondo il quale dare alla luce un maschio sia un grande vantaggio, soprattutto per la madre».

Il Nido di Ana: nel reatino una rete contro la violenza di genere

Il calendario di eventi proposto da Il Nido di Ana OdV ha previsto una serie di infopoint nelle sedi distrettuali ASL per fornire informazioni e distribuire materiale divulgativo. «Queste iniziative ci hanno trovate coinvolte nella prospettiva di rafforzare il messaggio che una società libera dalla violenza e dagli stereotipi di genere è una società migliore», hanno spiegato le organizzatrici del Nido di Ana. «Quest’anno sono 18 gli anni di attività sentita e professionale e di dedizione al tema», ha raccontato la presidente Alberta Tabbo. «Sono grata a tutte le donne che come me e con me hanno e stanno percorrendo questo viaggio. Sono soddisfatta perché, nonostante il problema sembra avere un affondo maggiore, tutti sono pronti e attenti a condividere questa lotta. Dopo tanti anni mettere tutte queste persone insieme mi conforta, la rete buona sta crescendo. Mi sento meno sola e voglio credere fortemente che anche questo territorio (che purtroppo non è diverso da altri) non sia solo. Sottolineo come ci sia anche molta collaborazione concreta da parte delle istituzioni, un ottimo segnale. Insomma c’è una rete che funziona».

A RIETI UNA RETE CONTRO LA VIOLENZA DI GENERE CHE FUNZIONA

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