
INDIETRO COSÌ: LA DISABILITÀ, IL TEATRO E LA RICERCA DI SÈ
Stefano Romani è il protagonista di Indietro così, il film di Antonio Morabito che racconta la sua esperienza nei laboratori teatrali con le persone con disabilità psichiche e motorie. Romani: «Lo spazio teatrale attutisce le differenze, è uno spazio di eguaglianza in cui emerge l’umanità»
08 Settembre 2025
6 MINUTI di lettura
ASCOLTA L'ARTICOLO
«Perché, i matti chi sarebbero? In realtà sono tutti. Anche quelli che non lo sono». Stefano Romani, forse, un po’ matto lo è davvero. E lo diciamo perché, a parlare con i matti, si trova benissimo: li capisce, li guida, e tira fuori da loro risorse inaspettate. Stefano Romani è un autore, attore e regista teatrale, ed è anche un operatore della Cooperativa Sociale Oltre. Insieme agli operatori e gli utenti del Centro diurno La bottega delle idee – ASL RM2 e del Progetto laboratori per persone con disabilità – Municipio RM2 è il protagonista di Indietro così, il film di Antonio Morabito che racconta la sua esperienza nei laboratori teatrali con le persone con disabilità psichiche e motorie. Indietro così è stato presentato a Venezia, alle Notti Veneziane delle Giornate degli Autori. È un film positivo, coinvolgente, che trova il tono giusto, mai pietistico, per raccontare questo mondo. Le persone con disabilità non sono mai viste dall’alto, ma sono sempre sul nostro stesso piano. Stefano è sempre in mezzo a loro, e così la macchina da presa di Antonio Morabito lo segue e trova la chiave giusta per il racconto. Stefano in mezzo ai matti, sa stare e sa parlare la loro stessa lingua. «Ho sempre avuto un approccio spontaneo» ci racconta. «Faccio questo lavoro un po’ per caso, vengo dal teatro e non ho una formazione prettamente pedagogica. Credo che le due cose si siano sovrapposte. Lo spazio teatrale è uno spazio di creatività ed espressione di sé, è uno spazio che attutisce tutte le differenze. Emerge l’umanità, che si manifesta in tante differenze. È uno spazio di eguaglianza. Sono abituato a entrare in quello spazio e mi viene naturale». E così viene naturale anche ad Antonio Morabito trovare il modo di raccontare questa storia. «La cosa che mi ha subito affascinato di Stefano è la sua capacità molto sottile e complicata, ma che per lui è semplice, di vedere la persona e non la patologia» ci spiega il regista. «Credo che faccia un lavoro straordinario, assolutamente difficile, ma, grazie alla sua sensibilità e la sua competenza, riesce a farlo in modo quasi disinvolto. Che non vuol dire che non abbia conseguenze su di lui, che è una spugna e assorbe tutto. Si mette in gioco totalmente e a fine giornata ne esce spossato».
Una cooperativa: ma che lavoro fai?
Non è un lavoro facile quello dell’operatore sociale. Non è facile farlo, non è facile viverlo, non è facile spiegarlo. In un momento del film Stefano spiega che, spesso, il fatto di lavorare in una cooperativa si dice quasi con vergogna. La gente ti chiede che lavoro fai, si chiede se è volontariato (e non lo è), nessuno capisce bene quello che fai. «Ho iniziato a fare questo lavoro perché non riuscivo a mantenermi con il teatro» ci spiega Stefano. «E questa cooperativa che lavorava insieme alla mia associazione, che faceva teatro per bambini, ci ha chiesto se qualcuno voleva lavorare sulla disabilità con dei laboratori artistici. Così mi ritrovo, a 50 anni, a fare quasi esclusivamente teatro con persone con disabilità». Ma in questo discorso sulle cooperative c’è anche altro. «C’è il fatto che in Italia il nostro lavoro nel sociale, il lavoro educativo, quello con la disabilità, è ancora poco riconosciuto. E poco retribuito».
Lavorare nelle emergenze, cercare le emergenze
E così, dal parlare di questo lavoro a parlare di Stefano è un attimo. Come nel film, in cui, a sorpresa, il discorso diventa la personalità di Stefano. Accade quando Carla, una collega, gli fa notare la sua insicurezza. Gli dice che dovrebbe valorizzarsi di più. E allora Stefano riflette, si mette in gioco. E realizza che, invece di essere solo un attore teatrale, è qualcuno che fa fare teatro a tante persone che hanno dei problemi. «Quello che mi dà fastidio del teatro è che è un ambiente narcisista. Cosa che anche io sono probabilmente» ci confessa. «Ma a un certo punto questa forma di narcisismo potevo metterla a disposizione delle altre persone». «Questa collega lo punzecchia perché lo conosce molto bene, gli dice: “sei così bravo a lavorare nelle emergenze ma non è che le cerchi tu le emergenze, perché in questo modo non hai nulla da perdere e cerchi un po’ la comfort zone?”» riflette il regista. «Stefano si mette in discussione e comincia a chiedersi cosa lo ha portato a cercare queste cose, prova a muovere delle critiche verso se stesso. È una scena che mostra un punto di insicurezza di Stefano, che fino a quel momento avevamo visto solido, capace, elastico. Vedere un lato più debole, cercare un’umanità più nascosta mi sembrava un’ottima occasione per accrescere quello che è un personaggio in un film».

Il teatro è la scoperta di sé
La scelta di rinunciare a un po’ del proprio ego per dare qualcosa agli altri è una grande cosa. Anche perché, come con il Teatro Patologico, il teatro fa bene. «È uno strumento potentissimo» ci conferma Stefano. «Permette relazioni molto potenti e alle persone di esprimersi per quello che sono. È un lavoro che presumiamo faccia bene, di ricerca sulla persona, di scoperta di sé». Di Indietro così restano dentro momenti forti, come i ricordi dell’infanzia di queste persone, i dialoghi immaginari con i loro genitori. Quel loro tirare fuori tutto attraverso le urla. E restano anche momenti divertenti, come un fantastico Romeo e Giulietta recitato da Stefano con una delle partecipanti al laboratorio.
La disabilità non deve rompere le scatole…
Ma c’è un altro momento del film che fa discutere. È quando Stefano e una collega dicono che, ancora oggi, la disabilità deve essere mostrata, ma «non deve rompere le scatole». Che è comunque ancora vista come un peso, è ancora vista come lo era 50 anni fa. Parole amare, anche dopo aver visto il grande lavoro fatto da questi operatori con persone disabili. «Per quanto sia andata avanti l’integrazione è come se il mondo della disabilità fosse più incentrato sul contesto intorno alla persona disabile che alla persona stessa» commenta Stefano. «C’è sempre il concetto della famiglia, e lo dico con il maggior rispetto possibile. Qualcosa che bisognerà continuare a chiedersi è quanto al centro dei progetti ci sia la persona con disabilità e quello che richiede la persona». «Quella frase è venuta fuori dal confronto tra due operatori del settore, che conoscono profondamente la realtà delle persone disabili, delle famiglie e, parlando tra loro, sono arrivati a questa conclusione. Che spero sia un po’ provocatoria» aggiunge Antonio Morabito. «Se l’hanno detta un motivo sicuramente c’è. Spesso si perde il fuoco sull’umanità della persona. Il nostro documentario vorrebbe fare questo. Restituire un’orizzontalità in questo ambiente, proprio come fa Stefano con le persone del laboratorio, proprio nel modo in cui si relaziona a loro».
