TEATRO PATOLOGICO: «SARÀ LA TEATRO-TERAPIA LA PROSSIMA RIVOLUZIONE?

Il Teatro Patologico, fondato e diretto da Dario D'Ambrosi, è stato uno dei protagonisti del Festival di Sanremo: porta avanti la teatro-terapia, il teatro come cura del disagio mentale. Sarà una rivoluzione come quella di Basaglia?

di Maurizio Ermisino

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Ma allora chi ha vinto il Festival di Sanremo? Hanno vinto loro. Se non li avete visti, andate a recuperare la loro trionfante esibizione. Stiamo parlando del Teatro Patologico, quel fantastico mondo fondato e diretto da Dario D’Ambrosi, che ha sganciato sul palco dell’Ariston la sua gioiosa “bomba atomica” alla terza serata del Festival di Sanremo. Peccato essere stati solo davanti alla tivù e non lì. Perché Dario e i suoi ragazzi avresti avuto voglia di abbracciarli. Ora, grazie a quell’esibizione, molte persone conoscono i benefici della teatro-terapia, un percorso in grado di cambiare la vita a chi soffre di problemi mentali e alle relative famiglie. Dario D’Ambrosi, fondatore e direttore del Teatro Patologico Onlus, da oltre 40 anni si occupa di malati di mente. Tutto è iniziato da una sua esperienza personale. Da ragazzo, infatti, è stato internato in manicomio per 3 mesi. «È stata una cosa molto violenta» ci ha confessato. «Ero giovanissimo, e soprattutto venivo dal mondo del calcio: ho giocato quattro anni nel Milan fino alla Primavera, ho anche giocato a San Siro. Dico sempre che sono finito dallo stadio dentro l’inferno. È stata un’esperienza allucinante, che fai quando sei giovanissimo e sei incosciente. Adesso la rifiuterei completamente. A quei tempi c’erano pochissimi psicofarmaci e tantissime patologie, per cui le reazioni agli psicofarmaci erano così violente che la notte non si dormiva mai, perché c’era qualcuno che si spaccava la testa contro i muri e contro le porte».

teatro patologico

Tutti non ci sono

Ma il teatro è venuto in soccorso a Dario molto presto. Non aveva ancora capito che poteva curare molte persone. Ma è partito da sé. «All’inizio ho cercato di curare me stesso» ricorda. «Ho iniziato subito a fare teatro, nel paese dove sono nato, a San Giuliano. Volevo portare il mio teatro a Milano, a pochi chilometri di distanza. Nessuno mi dava fiducia, nessuno mi dava la possibilità di fare questo spettacolo, non credevano che così giovane potessi scrivere, dirigere e recitare questa pièce, “Tutti non ci sono”. Così ho lasciato l’Italia e sono andato a New York, dove Andy Warhol ha visto lo spettacolo tre volte. Porto ancora in giro questo spettacolo, a Londra, Berlino, Atene. È la storia di un malato di mente che esce dal manicomio e si confronta con il pubblico».

«Non si tratta di prendere qualche malato di mente e fargli fare lo spettacolino»

Con il tempo è nata in Dario l’idea di condividere questa esperienza. Di portare il bene che il teatro ha fatto a lui anche agli altri. «È avvenuto in modo naturale: ho cominciato a prendere contatti con le varie associazioni, cooperative, istituti dove si lavorava con i malati di mente» ci racconta. «Piano piano, dopo quarant’anni, capisci che puoi veramente aiutare tante persone. Adesso non l’ho solo capito. L’ho scoperto a livello umano e a livello scientifico, con dei protocolli veri e propri». «Ci sono voluti una ventina d’anni per capire quanto il teatro potesse fare bene» continua. «Quando conosci a fondo le varie situazioni, le varie patologie, capisci come lavorare all’interno del teatro. Il grande problema è che tanta gente collega la teatro-terapia al fatto di prendere qualche malato di mente, sbatterlo sul palcoscenico e fargli fare lo spettacolino. La teatro-terapia, con gli esercizi che ho sperimentato e protocollato in questi anni, è qualcosa di molto forte. Esercizi come lo specchio, le tre sedie i quattro angoli ti scombussolano emotivamente. E non fai altro che conoscere i propri dolori e imparare a gestirli».

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«Ci sono voluti una ventina d’anni per capire quanto il teatro potesse fare bene. Il grande problema è che tanta gente collega la teatro-terapia al fatto di prendere qualche malato di mente, sbatterlo sul palcoscenico e fargli fare lo spettacolino»

La teatro-terapia all’ONU

A giugno Dario D’Ambrosi presenterà la teatro-terapia all’ONU, dicendo che deve diventare una cura vera e propria. «Se questa cosa verrà riconosciuta, sarà una vera e propria rivoluzione, dopo la chiusura dei manicomi di Franco Basaglia» ci spiega. «Sarà un atto molto forte e rivoluzionario nel mondo della disabilità psichica. Molti psichiatri mi chiamano e mi chiedono di aiutarli a capire che cosa sia la teatro-terapia perché possano metterla nel loro bagaglio scientifico. Se tu a un ragazzo dai un depak da 300 la mattina, uno a pranzo e uno alla sera, e grazie alla teatro-terapia cominci a eliminare le dosi e glielo dai solo alla sera, il malato comincia a svegliarsi, ad alzare la testa, ad avere più autostima e a confrontarsi con la quotidianità. E qui avviene l’inclusione. Deve essere un lavoro molto intelligente da parte di questi medici che hanno in cura questi malati. Ma gli psichiatri non fanno altro che parlare male l’uno dell’altro, non hanno il senso della ricerca e la voglia di scoprire e mettersi in gioco per salvare molti ragazzi e dare speranza a molte famiglie».

I più visti di Sanremo, insieme ai Duran Duran

E poi c’è stato Sanremo. «Per me è stato un momento importantissimo» ci spiega Dario D’Ambrosi. «Riesci a immaginare quante famiglie erano davanti alla tivù? Siamo stati i più visti di Sanremo, con una media di 15 milioni e 170mila spettatori, anche perché abbiamo avuto la fortuna di essere prima dei Duran Duran. Quante famiglie con i ragazzi disabili in casa hanno detto “se quei ragazzi sono saliti sul palco dell’Ariston perché non ce la può fare anche mio figlio?”. Su quel palco ci sono saliti ragazzi con patologie molto gravi, borderline, autistici, bipolarismo ossessivo e paranoico. Patologie molto serie, non semplicemente una depressione lieve. Abbiamo dato una speranza a tantissime famiglie che il giorno dopo si sono messe in moto per dare al proprio figlio la stessa opportunità».

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«Riesci a immaginare quante famiglie erano davanti alla tivù? Siamo stati i più visti di Sanremo, con una media di 15 milioni e 170mila spettatori. Quante famiglie con i ragazzi disabili in casa hanno detto “se quei ragazzi sono saliti sul palco dell’Ariston perché non ce la può fare anche mio figlio?”»

A qualcuno non è piaciuto

C’è anche qualcuno a cui quell’esibizione non è piaciuta. «Hanno detto che ho gigioneggiato con la malattia mentale» ci racconta D’Ambrosi. «Ma chi usa questi termini è probabilmente gente che non conosce il mio percorso. Anche portarli a Sanremo, spanderli davanti a milioni di spettatori sarebbe stato troppo. Ma io dico: ben venga. Erano con costumi d’epoca, del Teatro dell’Opera. Non più il malato legato al termosifone, non ci sono più i cliché che fanno paura. È la bellezza del malato di mente, con un’opera di Giuseppe Verdi, con un’eleganza molto sottile e di grande efficacia».

Un Teatro Patologico in ogni città

Il Teatro Patologico è anche all’università. Dario D’Ambrosi ha fondato, insieme all’Università di Tor Vergata, un corso universitario rivolto a disabili fisici e psichici. «Doveva essere riconosciuto dopo il terzo anno» ci spiega. «Avrebbe significato che le altre università avrebbero potuto adottare il corso e sviluppare questa esperienza all’interno della propria università. Ma la ministra non l’ha ancora ufficializzato. Noi continuiamo a farlo a livello sperimentale. Dopo Sanremo la gente ci scrive da tutta Italia e ci dice: “non esiste un teatro patologico a Milano, a Cosenza, a Trento? Se si potesse riconoscere il corso si potrebbe fare formazione e creare un Teatro Patologico in tante città».

C’è ancora stigma

Ma come pensa che tornerà da New York Dario D’Ambrosi? «È una bella domanda» ci risponde. «Perché secondo me c’è ancora molto stigma, molta chiusura. Io questo l’ho capito quando sono andato a Friburgo, in Germania, a fare lo spettacolo. E molti genitori con i figli disabili, mi hanno raccontato che i figli non sono inseriti insieme agli altri ragazzi, ma vanno a scuola in edifici appartati. Questo mi ha fatto pensare che avrò ancora molto da lottare quando andrò a New York. Spero di tornare vincitore per i milioni di famiglie che hanno ragazzi disabili». A New York tornerà in autunno, a Broadway con la Commedia Divina, in cui Dante viene raccontato dalle storie infernali dei suoi ragazzi.

«Non posso dire che li ho guariti. Sarei un folle, sarebbe una bugia. Ma a molti di loro ho potuto dare una vita migliore. E anche un senso di dignità alle famiglie»

Ho conosciuto mio figlio

Ma per capire che cos’è il Teatro Patologico vi raccontiamo una storia. Una delle tante, tra 1700 ragazzi che Dario ha aiutato. «Non posso dire che li ho guariti. Sarei un folle, sarebbe una bugia» ci racconta. «Ma a molti di loro ho potuto dare una vita migliore. E anche un senso di dignità alle famiglie. Luca si autodistruggeva cercando di grattarsi tutta la pelle del viso, tanto che gli altri ragazzi di spaventavano. Ho detto alla mamma: “Luca è impossibile da tenere, spaventa”. “Allora lo porto via” mi aveva risposto Anna, la madre. Non ho dormito tutta la notte: perdere Luca sarebbe stata una sconfitta del Teatro Patologico. Così le ho chiesto: “Vuoi fare teatro insieme a tuo figlio?” Anna temeva di non farcela, lavora per uno studio di avvocati. Così sono andato dagli avvocati, ho sottoposto la situazione e ho detto che Anna sarebbe mancata due volte a settimana. Dal momento in cui la mamma teneva per mano il figlio durante gli esercizi è stata un’emozione incredibile. Luca, finalmente, non si faceva più male. E quando abbiamo fatto lo spettacolo, ho visto tutti gli avvocati piangere, con il fazzoletto in mano. Anna mi ha detto: “io non conoscevo mio figlio, l’ho conosciuto facendo il lavoro di teatro-terapia”».

Immagini tratte dalla pagina Fb di Teatro Patologico

 

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