IO SONO VULNERABILE: L’ARTE (E LE VITE) IN CARCERE
Io sono vulnerabile, dunque vivo. Arte è amare la realtà! è un progetto che usa forme artistiche diverse per affrontare la vulnerabilità umana. Siamo a Velletri, nell'ex Carcere Pontificio
29 Gennaio 2024
Entrare nell’ex Carcere Pontificio di Velletri, dove siamo stati a visitare Io sono vulnerabile, dunque vivo. Arte è amare la realtà!, un progetto transdisciplinare a cura di Sergio Mario Illuminato, che abbraccia diversi linguaggi artistici approfondendo il tema della vulnerabilità umana, è un insieme di sensazioni contrastanti. E molto forti. L’ingresso nell’antico istituto di detenzione, dove non ci sono più detenuti dal 1992, è chiaramente un momento molto sconvolgente già di per sé. All’esterno si notano grate molto particolari, le bocche di lupo, che oggi sono vietate perché tolgono ulteriormente luce ed aria alle finestre delle celle. Salendo per le scale, una grata al centro sembra la gabbia di un ascensore e invece è una recinzione per evitare i suicidi. Una volta dentro, balzano agli occhi gli spazi angusti e opprimenti di quella vecchia struttura. E anche l’effetto del tempo sugli ambienti, le crepe sui muri, le finestre rotte. Gli infiniti faldoni di vecchi documenti portati e poi lasciati lì una volta che il carcere è finito in uno stato di abbandono. In questo suggestivo contesto, un gruppo di artisti e professionisti delle arti visive, del cinema, della fotografia, della danza e della musica, insieme a insegnanti, tecnici e studenti dell’Accademia di Belle Arti e dei licei romani si è unito per creare il progetto Io sono vulnerabile, dunque vivo. Arte è amare la realtà!, realizzato nell’ambito dell’Accademia di Belle Arti di Roma, con il patrocinio di Regione Lazio, di Città Metropolitana di Roma Capitale e del Comune di Velletri, produzione esecutiva di Movimento Vulnerarte APS, con la collaborazione di Compagnia Atacama e Festival Internazionale Danza Contemporanea Paesaggi del Corpo. In un luogo che già di per sé mette i brividi, l’arte arriva a connetterci a questi luoghi e a far riflettere sul suo senso e sull’esperienza che è stata, ed è ancora, l’istituzione carceraria.
La vulnerabilità oggi è negata
Io sono vulnerabile ha trasformato un luogo dimenticato da oltre trent’anni in un vibrante spazio dedicato all’arte e al dialogo, aprendo nuove possibilità di riflessione per le generazioni future. Al centro del progetto c’è la vulnerabilità umana, un tema sempre più attuale in un mondo che spesso sembra muoversi a una velocità frenetica. In un’epoca in cui l’individualismo e la competizione dominano, spesso dimentichiamo che, al di là delle facciate che mostriamo al mondo, siamo tutti vulnerabili in modi unici e profondi. «L’idea del progetto è avvicinarci a temi che la società sembra voler tenere lontani» ci ha spiegato il curatore Sergio Mario Illuminato. «La vulnerabilità oggi è negata. Anche nell’arte. Sembra che, in questo momento, tutto debba funzionare. Il fallimento, l’errore, componenti fondamentali con cui ci relazioniamo, sono energia. Riunendo questi artisti volevamo riscoprire l’energia di questi luoghi, passarci attraverso. Ciò che vediamo è bello, è consolidato, ma è molto più interessante la parte invisibile del nostro quotidiano, che permette a ciò che vediamo di esistere. La chiave per arrivarci è il dolore, che ti permette di arrenderti a qualcosa che va oltre di te».
Un passato di confinamento e isolamento
L’ex Carcere Pontificio di Velletri è stato appositamente selezionato nel progetto Io sono vulnerabile per adottare una prospettiva diversa sull’arte, in cui l’attenzione è posta non solo sull’estetica, ma anche sull’etica e sulle implicazioni politiche. Questo spazio mette in discussione il fruitore, suscitando un impatto emotivo. E vi assicuriamo che è fortissimo. Le pareti di pietra logorate e le sbarre che testimoniano il passato carcerario diventano una parte essenziale della narrazione artistica, evidenziando un confronto tra il presente e il passato, tra il tempo e la trasformazione dei materiali. Gli spazi dell’ex carcere testimoniano un passato di confinamento e isolamento. Oggi questi stessi luoghi servono come tela per esplorare il tema universale e intimo della vulnerabilità umana.
Io sono vulnerabile: opere in simbiosi con l’ambiente
In questo contesto, le opere d’arte, create con materiali di recupero presi proprio dall’edificio del carcere e nate dalla visita degli artisti, vivono in simbiosi con l’ambiente circostante. Ne sono influenzati, ne sono testimonianza, sono l’espressione delle emozioni che quei luoghi provocano in chi ci si trova. Le opere sono volutamente lasciate senza titolo e nome dell’autore, per evitare che risaltino troppo, che diventino protagoniste. Devono invece essere un tutt’uno con il luogo in cui sono esposte. Sono spesso staccate dal muro. E non sono illuminate da una luce per enfatizzarle, ma da una torcia fornita al visitatore, in modo che ognuno di noi possa scegliere la propria visione. La mostra non è nelle singole opere, ma è l’insieme, sono i quadri e l’ambiente ad essere opera d’arte.
Dobbiamo approcciare in qualche modo la morte
I quadri si possono toccare, sentire. E in questo modo modificare. Le opere, come le pareti e le inferriate di quell’edificio, subiscono il passare del tempo. «Ci sono elementi organici presi dai materiali più strani: sono qui da un anno, cambiano, si evolvono» ci spiega Sergio Mario Illuminato. «Il Colosseo non sarebbe così interessante se nel frattempo il tempo e la natura non si fossero riappropriati di un’opera fatta dall’uomo. Su queste opere ad agire è una parte diversa del cervello, che non ha a che fare con la bellezza, ma con la convergenza tra natura e cultura. E dove si affaccia una cosa profonda che cerchiamo di rimuovere, che è il fatto che dobbiamo approcciare in qualche modo la morte, e dobbiamo considerare il nostro degrado come inevitabile».
Contatto umano, bellezza, vita in contrasto alla polvere e alle crepe
Arriviamo così all’ultimo piano, nel salone più grande, l’unico leggermente più arioso, quello che ospitava la cappella (su una parete si intravede il segno di quella che era una croce), il cinema. Era la sala della socializzazione. Ed è qui che è stata anche registrata, e dove oggi viene proiettata, una performance di danza contemporanea, coreografata da Patrizia Cavola e Ivan Truol con Camilla Perugini e Nicholas Baffon. «Alla base di tutto questo c’è l’incontro tra il corpo che danza e il luogo, con tutta la sua memoria, le atmosfere che rimandano, una trasmissione di emozioni, pensieri tra il corpo e il luogo» ci ha spiegato Patrizia Cavola. «Abbiamo fatto questa esperienza abitando vari luoghi del carcere e in ognuno abbiamo pensato di portare cose diverse. Alcune in celle molto piccole, da cui è uscito il senso di chiusura, di poca libertà, la solitudine. Qui, nel luogo della socialità, abbiamo scelto la danza, per comunicare, in contrasto con questa polvere e queste crepe, il contatto umano, la bellezza, la vita».
Un senso di chiusura, sofferenza, impedimento, solitudine
Quella di Patrizia Cavola, nata e cresciuta a Velletri, è una storia emozionante. «Questo è un luogo che ho conosciuto da bambina, e tornarci è stato rincontrare un luogo denso di memoria» ci ha confidato. «Ho avuto una compagna di scuola delle elementari che era la figlia del direttore del carcere. La prima volta che Sergio mi ha invitato qua ho avuto un flash di emozioni fortissime. È un luogo che avevo conosciuto ancora integro, funzionante. Ma con quelle immagini e quei suoni di chiavi e di cancelli che si aprivano e chiudevano che agli occhi e alle orecchie di una bambina erano una cosa inconfondibile». «È un percorso che ha messo insieme lo sguardo di Sergio, con le sue opere d’arte, e il nostro di coreografi, e questo luogo, con la sua polvere, le sue crepe, la sua memoria, la sua disperazione. È un luogo duro, forte da percorrere. Appena arrivati qui abbiamo sentito un senso di chiusura, sofferenza, impedimento, solitudine. E anche la voglia di rispondere a tutto questo cercando l’amore, il contatto, lo sfogo dinamico. La reazione a questi spazi è molto vitale, energica. È la voglia di rispondere a questa chiusura e questa solitudine».
Le scritte sui muri, veri e propri pezzi di vita e di anima
Le opere d’arte vivono insieme a quelle celle, ci dialogano continuamente. Dietro alle opere ci sono le pareti, e i pezzi di vita di chi là dentro ci ha vissuto. Ed è qui che si scatena ancora di più l’emozione. Ci sono i poster di Madonna, o delle top model degli anni Novanta, presi dalle riviste e attaccati alle pareti come unica finestra sul mondo, come unica via di consolazione. E, soprattutto, ci sono le scritte vergate sui muri dai detenuti, veri e propri pezzi di vita e di anima, confessioni che li mettono a nudo. “I tagli sulla pelle non sono un’illusione perché non guariscono più”. “Io e tutto ciò che mi circonda mi consuma. Che senso ha la vita?”. È per questo che, una volta dentro, da quell’antico carcere non si vorrebbe più uscire. Perché si sa che verrà, giustamente, riqualificato, ma con la riqualificazione sparirà la memoria di quelle vite, di quegli uomini e quelle donne che sono stati lì dentro con cui, per qualche ora, ci è sembrato davvero di parlare. Sai che non vedrai più quell’edificio com’era e com’è, che non leggerai più quelle confessioni. E allora con queste persone, che non hai conosciuto ma che in realtà stai conoscendo, vorresti rimanerci ancora un po’. Per ascoltarli, perché in qualche modo ti hanno chiesto di farlo.