IL CERCHIO: PICCOLI UOMINI E PICCOLE DONNE CRESCONO

Il cerchio, di Sophie Chiarello, David di Donatello per miglior documentario, racconta i bambini della scuola Di Donato, famosa a Roma come esempio di integrazione. La regista li ha seguiti per cinque anni e ci racconta il loro modo di vedere il mondo

di Maurizio Ermisino

“Benvenuti in prima” recita la scritta su un coloratissimo striscione che accoglie i bambini nella loro nuova scuola. Inizia così Il cerchio di Sophie Chiarello, David di Donatello per il miglior documentario. Siamo a Roma, nel 2015, nel quartiere Esquilino. La scuola è l’Istituto Comprensivo Daniele Manin, plesso Di Donato, una scuola che è diventata famosa per il suo senso per l’integrazione, e dove il film è stato proiettato lo scorso 7 giugno: è stato un cerchio che si chiude. All’inizio del film, quei bambini hanno sei anni, stanno iniziando la prima elementare, una nuova, grande avventura. Guardano dritto in macchina, con i loro occhioni sgranati, con i loro visetti disarmati. Poi, pian piano, quella macchina da presa se la scorderanno. Parlano con quella loro innocenza, quel loro essere senza filtri che solo in quella magica età è possibile. Sophie Chiarello li seguirà per cinque anni e li vedrà crescere, un po’ come aveva fatto Richard Linklater con Ellar Coltrane, il protagonista del suo Boyhood. I dentini cadono, lasciano quei buchini in bocca e poi ricrescono. Nel giro di cinque anni quei bambini cambiano, crescono, diventano dei piccoli uomini e piccole donne. Potrete vedere il film oggi, lunedì 26 giugno, alle 18.30, al Cinemancini, in Via Matteotti 53, a Monterotondo.

Il Cerchio
Sophie Chiarello, regista de Il Cerchio, David di Donatello per il miglior documentario

«La Di Donato rappresenta molto più di una scuola» ci racconta Sophie Chiarello. «Io e la produttrice Francesca Cima avevamo entrambe i figli in quella scuola. C’è stato un momento, quando il mio figlio più grande aveva finito la quinta elementare, in cui avevo conosciuto questo universo della scuola italiana, che non conoscevo: io sono nata e cresciuta in Francia. La specificità italiana è data dal fatto che i bambini stanno nello stesso gruppo classe per cinque anni: in Francia non accade. Io vengo da una storia familiare particolare: i miei erano salentini immigrati in Francia, e quindi mi interessava il tema della doppia identità, delle seconde generazioni. Mi sembrava che questa scuola, che è una delle prime che ha fatto dell’accoglienza la sua priorità, potesse raccontare tutto questo. L’accoglienza non era un progetto: lo è diventato quando hanno dovuto includere dei bambini che non parlavano italiano. E così è diventata una scuola multietnica nel vero senso della parola. È una scuola dove chi arriva da fuori, con qualsiasi storia alle spalle, trova uno spazio in cui stare bene; dove può esistere qualsiasi tipo d’identità». E di storie di questo tipo ne vedremo tante: chi veniva da discriminazioni, bullismo, “brutte parole”, qui ha potuto ricominciare da capo. Ed è stato un sollievo.

Il Cerchio: macchina da presa ad altezza bambino

Il Cerchio
Il Cerchio sarà oggi, lunedì 26 giugno, alle 18.30, al Cinemancini, in Via Matteotti 53, a Monterotondo

La macchina da presa è sempre ad altezza bambino, al loro livello. In tutti i sensi, Il cerchio non è mai un film visto dall’alto, non è un film sui bambini, ma con bambini, in mezzo a loro. Seduti a terra, in cerchio, in mezzo ai banchi, in presenza dell’insegnante, i bambini accettano di essere ripresi dalla regista Sophie Chiarello mentre ragionano su tante questioni. Il cerchio non diventa mai un pamphlet politico né un film a tesi: mette temi importanti con naturalezza in un racconto che in fondo è quello di tutti i bambini. Non c’è solo la storia dell’integrazione, ma ci sono le domande che si pongono tutti i bambini. È un film universale. «Io e la maestra sapevamo che non volevamo un film a tesi» ci racconta la regista. «Ho capito velocemente che se avessi seguito le mie opinioni sarebbe stato un film molto più adulto. Abbiamo capito strada facendo che io stessa avrei dovuto attraversare quell’esperienza: dovevo provare a rendere il mezzo cinema il più invisibile possibile, uno strumento a nostra disposizione, di uso quotidiano. Dovevo togliere l’eccezionalità della mia presenza: doveva essere graduale, discreta, in disparte».

Chiedimi se sono felice

«Secondo me la felicità un po’ combacia con la fortuna» dice un bambino. «Se trovi 100 euro per terra sei felice». «Io sono capace di trasformare i sogni in realtà» dice un altro. O ancora, «felicità è andare lontano da qui, e vedere se esiste veramente Star Wars». Ai bambini sono state fatte tante domande sui grandi temi. «Mi accorgevo che nessuno degli adulti che hanno intorno aveva mai chiesto loro se era felice» ci svela l’autrice. «Lo dico senza colpevolizzarci: noi adulti siamo convinti che dal momento in cui i bambini vanno a scuola, fanno sport, sono stimolati culturalmente, tutto questo garantisca loro un benessere emotivo, che basti ad appagare i loro bisogni. In realtà il loro bisogno d’ascolto non è appagato così. Di fatto non conversiamo con i nostri figli: pensiamo di sapere cosa pensano, cosa provano e chi sono, e non ci rendiamo conto che hanno delle opinioni loro sulla vita, anche sulle cose grandi. Avevo fatto un accordo con loro per cui, nel momento in cui mi avrebbero chiesto di spegnere la telecamera, lo avrei fatto. La cosa che mi ha sorpreso è che mi chiedevano di spegnere la mdp per cose che, al mio sguardo di adulto, si potevano dire, come il litigio con un amico. Quando si parlava dei grandi temi – come la malattia, la morte, la politica, l’abuso, la felicità – nel tentativo di comprendere delle cose che per loro erano molto complesse di elaborare, ne parlavano con facilità».

I bambini giocano e gli adulti vanno a lavorare

Il Cerchio
Ai bambini sono state fatte tante domande sui grandi temi. «Mi accorgevo che nessuno degli adulti che hanno intorno aveva mai chiesto loro se era felice»

«Il mondo degli adulti è faticoso, perché gli adulti devono badare ai figli e devono lavorare». «Hai voglia di diventare un uomo?» «Non tantissimo. Solo per fare il calciatore». «Che differenza c’è tra la vita dei bambini e degli adulti?» «Che quella degli adulti è più corta». «Che i bambini giocano e gli adulti vanno a lavorare». Parlano tanto anche degli adulti, e del lavoro, i bambini de Il cerchio. «Per la nostra generazione – ma è un’analisi del tutto personale – che ha fatto i figli tardi rispetto alla generazione precedente, i figli sono una scelta consapevole» ci spiega la regista de Il Cerchio. «Nel momento in cui li facciamo ci rendiamo conto di tutto quello che vuol dire: cose meravigliose, ma anche rinunce e compromessi. È come se loro la percepissero questa cosa. La generazione dei nostri genitori faceva figli perché si facevano, punto, e ci si occupava di loro, era nell’ordine delle cose. Oggi fare figli non è nell’ordine delle cose, è una scelta, e i bambini diventano il centro del nostro mondo. Contemporaneamente, però, è come se ogni volta dovessimo sentirci degli eroi perché facciamo figli. E in qualche modo i figli lo percepiscono, capiscono che per loro facciamo tantissime rinunce».

Babbo Natale esiste o non esiste?

«Per la nostra generazione i figli sono una scelta consapevole. Nel momento in cui li facciamo ci rendiamo conto di tutto quello che vuol dire: cose meravigliose, ma anche rinunce e compromessi. È come se loro la percepissero questa cosa»

La felicità, i sacrifici dei genitori, il momento di crescere: tutti questi temi sono racchiusi dal tema di Babbo Natale, un argomento ricorrente in tutto Il Cerchio e per tutto il percorso scolastico. Babbo Natale che non porta i regali ai bambini che si comportano male. Babbo Natale che viaggia alla velocità della luce (e chissà come fanno gli scienziati a capirlo…) Babbo Natale che, in qualche modo, c’entra con Gesù (che “è stato uno importante” …) «Babbo Natale è messo nel film perché il discorso è emerso in classe» racconta l’autrice. «Mi intriga molto osservare come questi bambini, man mano che passa il tempo, cambino opinione, e cosa li induca a farlo. Babbo Natale era un’occasione ghiottissima, un tema che ritorna da solo. Da subito mi sono resa conto di quanto loro, già in seconda elementare, cominciano a interrogarsi, il che pone ogni volta delle questioni. Per trovare delle risposte attingono a una loro esperienza, un loro vissuto. Chiaramente Babbo Natale era un’occasione per loro e anche per me di cogliere ogni volta delle piccole sfumature del loro contesto di provenienza. Nella scena finale queste cose emergono con tutta la loro forza. Per cinque anni Joel ci dice “non credo a Babbo Natale”, è disincantato, perché la sua famiglia ha impostato la cosa così. In seconda è l’unico che non riceve regali: probabilmente la mamma gliel’ha già detto, ma quando tutti parliamo di regali, siccome stando con i bambini ha voglia di credere in Babbo Natale, mi confida che non ha ricevuto niente, e partono tutte le ipotesi. Ma in realtà già lo sa: in quel momento era in bilico tra il credere a sua mamma e il desiderio di stare nel mondo della fantasia, dell’infanzia, dove tutto è possibile. Arrivati all’ultimo anno, tutti sono più o meno consapevoli: in quel momento ho toccato con mano quello che è forse il primo gande lutto, chiudere con il mondo dell’infanzia, della fantasia, e salutarlo per sempre, decidere di sposare la teoria secondo la quale la magia non esiste. È il momento della crescita, ed è dolorosissimo. E Nina fa quasi una cosa filosofica quando dice “perché devo attribuire le cose belle che mi capitano a qualcosa di irreale, quando invece quello che mi accade di bello è perché qualcuno lo sta facendo accadere, e sono i miei genitori?” E così torniamo al concetto del lavoro e dei sacrifici».

Io mi vergogno a parlare d’amore

«Innamorati vuol dire quando una persona ti piace e vorresti stare insieme a lui per tutta la vita. Ti succede una cosa, ti senti di baciare». «Ma a un certo punto all’ora di pranzo o cena se ne deve andare». Arrivati all’ultimo anno, i bambini sono già grandi, e si interrogano sull’amore. «Quando mi sono innamorato, mi sentivo depresso, non riuscivo neanche a dire una parola a quella che amavo». «Io mi vergogno a parlare d’amore». Ma il discorso diventa anche quello dei ruoli di uomini e donne. «Sono sempre i maschi che devono conquistare le femmine». «Una volta le donne stavano a casa e non andavano a lavorare. Chi glielo impediva? Le leggi. È una sorta di razzismo. Come quello di Hitler. Oggi è diverso, possono lavorare e guadagnare». «In fondo loro restituiscono un’immagine della coppia un po’ arcaica, e questo a me dispiace molto» riflette la regista. «C’è un’immagine del meccanismo uomo-donna, nonostante i genitori siano giovani, perché i modelli che restituisce la società, e di cui si imbevono, sono discutibili».

I nostri genitori non avevano mai avuto esperienze di figli prima di noi

Sophie Chiarello ha seguito i bambini per cinque anni, li ha visti crescere, un po’ come aveva fatto Richard Linklater con Ellar Coltrane, il protagonista del suo Boyhood

Nel film ci sono dei momenti molto toccanti, come la storia di Mithun, che ha perso i genitori ed è stato adottato, e racconta tutto con una serenità disarmante. «Quando Mithun racconta la storia dell’adozione e di quello che è successo, ci siamo sempre chiesti quanto fosse una sua memoria o quanto una narrazione che gli è stata fatta, e probabilmente sono entrambe le cose» spiega l’autrice. «Ha dei ricordi molto nitidi, altri che ha trasformato nel tempo, perché forse gli è stata raccontata una storia delle sue origini che si mescola col ricordo. Ed è una storia che lui ha voglia di raccontare. Mithun è disarmante quando a un certo punto dice: “per me la felicità è stare insieme a voi che siete la mia famiglia”. Ha poche parole a disposizione, ma è come se gli fossero state insegnate delle parole precise per descrivere dei sentimenti precisi». Così come è disarmante la consapevolezza di Pietro quando dice che «in fondo i nostri genitori non avevano mai avuto esperienze di figli prima di noi». «Pietro è un ragazzino che ha subito maltrattamenti da parte di adulti, a scuola, dalle suore, e nessuno se n’era accorto» ci racconta la regista. «Attribuisce il fatto che nessuno se ne sia accorto all’inesperienza nostra, adulta, nel gestire i bambini. Il Covid ha permesso a genitori e figli di conoscersi». E sono proprio i giorni del Covid, vicini ma lontani a chiudere questa storia. Che va assolutamente vista. I bambini hanno parlato di tutto, di guerra, di migrazioni, dei litigi tra i genitori. Delle loro vite prima della Di Donato e della nuova vita che, per tanti di loro, è iniziata in questa scuola. «Ho imparato a fare amicizia» dice uno di loro. Ma ci dicono anche questo. «Gli adulti sono seri perché hanno sprecato tutta la loro giocosità da bambini». È un’altra verità. Ancora una volta hanno ragione loro.

IL CERCHIO: PICCOLI UOMINI E PICCOLE DONNE CRESCONO

IL CERCHIO: PICCOLI UOMINI E PICCOLE DONNE CRESCONO